GLI INCIPIT DEI MIEI ROMANZI






"Come fiori tra le macerie", Capponi editore.




Nel salutare il nuovo secolo che si affacciava, un deputato disse:
«Se nell’ottocento che muore gli sforzi delle classi lavoratrici furono soffocati, il secolo che nasce ne vedrà il trionfo. Se il fanciullo non ebbe pane, né istruzione, se il vecchio non trovò letto e riposo, provvedi tu, o secolo nuovo, a dare a tutti gli uomini lavoro, libertà e cibo!».[1]
Le parole entusiaste dell’uomo politico furono pura utopia, almeno per la prima metà del XX secolo: lo sviluppo industriale aveva portato benessere nel nord dell’Italia, ma lo stesso non si poteva dire per il centro-sud.
Come un cappio alla gola la povertà costringeva la gente a vivere sul filo del rasoio, in bilico tra la vita e la morte. Così, la tanto nominata America – neanche fosse stato il paese dei balocchi – e l’emigrazione verso quel continente lontano, divennero il tentativo disperato di trovare una soluzione a molti dei loro problemi.
La prima guerra mondiale, con il suo spreco di energie e risorse, aveva lasciato un’Italia devastata dalla povertà. La gente era stremata, impaurita, affamata.
Nonostante la guerra fosse finita, la paura non se ne sarebbe andata mai, né nelle menti degli anziani né in quella dei bambini. Lì, dove aveva lasciato solo dolore e povertà si doveva ricominciare, ripartire da zero.
La lira aveva perso il suo valore e i generi alimentari ebbero un rincaro fino al 560%. Non era di certo facile per quelle famiglie che, già abituate a campare con poco, dovevano andare avanti con sempre meno cibo nello stomaco e sempre minor forza nel corpo.
Non potevano perdere un solo giorno di lavoro nei campi, loro unica forma di sostentamento, ma la situazione era davvero difficile, terribile.
Quella sera, a dare man forte alla già tragica situazione nazionale, un dramma familiare –considerato assai più grande per chi lo viveva–, si stava consumando in un piccolo paese della Ciociaria, sfiorato dalle placide acque – almeno all’apparenza – del fiume Liri, che vedeva la luce nelle sorgenti abruzzesi per andarsi a gettare nel mar Tirreno.
Il suo nome fu inizialmente Liris per i romani, modificato poi in Verde nel medioevo, per la particolare alga che cresceva nelle sue acque quando scorrevano tranquille e limpide.
In una piccola casa di quell’antico paese, Filomena stringeva forte al petto la sua bambola di pezza. Era troppo piccola per capire cosa stesse succedendo, eppure il suo cuoricino batteva impetuoso come se percepisse un’imminente cambiamento. Riusciva a sentire gli animi agitati e tristi delle persone che le stavano intorno.
Seduto davanti al camino, nonno Mario batteva ritmicamente il bastone di legno, l’oggetto dal quale, ormai, dipendeva negli spostamenti. Affidava a lui gli acciacchi dell’età avanzata e della dura vita passata a faticare nei campi. Le ore trascorse sotto il sole cocente, in balìa del vento o del freddo, erano tutte lì, segnate sulla pelle aggrinzita del volto.
Ogni tanto si toglieva il cappello, tirava fuori il fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e si asciugava, spento, ora la fronte, ora gli occhi, l’una per il caldo del fuoco, gli altri per le lacrime commosse.
Anche nonna Caterina era irrequieta. Camminava, strisciando i piedi, dal tavolo alla porta, dalla credenza alla piccola finestra, dove svettava il genero che, piano, accarezzava su una spalla, tornando al tavolo per sedersi sulla sedia consumata e sgangherata. Bevve un sorso d’acqua, poggiando il bicchiere senza troppa convinzione, con la testa colma di pensieri.
Sempre con lo sguardo rivolto al pavimento e le labbra in movimento nel dire una preghiera, accarezzava il piccolo Cristo attaccato alla catenina dal quale mai si separava, chiedendo pietà dai dolori, da quella sofferenza già troppo a lungo sopportata.
Nonostante avessero finito la misera cena da un pezzo e la cucina fosse stata già rassettata, continuava a passare la pezza sul grande tavolaccio di legno, ad alzarsi e risedersi, a muoversi per la stanza, ma si trattava di gesti irrazionali. Filomena, infatti, vedeva il suo sguardo assente, perso in cupe riflessioni di quella fredda sera di gennaio.
Suo padre Vincenzo se ne stava lì, muto, davanti alla finestra, con le mani in tasca e l’aria affranta. Sembrava non ci fosse, in quella stanza: i suoi pensieri se li portava via il vento, chissà dove, forse nei ricordi di un matrimonio che all’inizio era sembrato felice ma che poi, il tempo, aveva lentamente consumato.
Seduta sulla piccola sedia di paglia, Filomena guardava la sua bambola.
Amelia gliel’aveva costruita con tanto amore. Era raro possedere un giocattolo a quei tempi, – spesso solo i figli dei benestanti potevano permetterselo – e così, per la bimba, quella bambolina era preziosa più dell’oro.
Ricordava ancora il giorno in cui la consumata mano della mamma la cuciva, mentre lei l’osservava, ammaliata da così tanta bravura.
Con della vecchia tela di juta, sapientemente ritagliata e cucita su tutti i lati, aveva formato un sacchettino, lasciando solamente un piccolo buco da dove poter infilare numerosi rimasugli di stoffa. Rammendato il foro, con dello spago legò i due angoli superiori del sacchetto, così da farne le manine.
Allo stesso modo aveva creato la testa, mentre con i fili di lana aveva formato i capelli e usato due bottoncini per gli occhi.
Quello era stato il regalo per il suo quinto compleanno, festeggiato due mesi prima e, da allora, non se ne era mai separata. La teneva sempre con sé, come un portafortuna.
***
La porta della stanza da letto si aprì lentamente, cigolando.
Il dottor Di Giacomo comparve sull’uscio con le braccia penzoloni, lo sguardo basso e accigliato. Era l’unico medico del piccolo paese e conosceva quella povera gente da sempre, come facessero parte della famiglia.
Filomena non avrebbe mai dimenticato quella scena che le si sarebbe impressa nella memoria per tutta la vita, manifestandosi, crudele, nei suoi incubi notturni per svegliarla con la fronte imperlata di sudore, facendola sussultare nel letto.
Il medico guardò la piccola con gli occhi lucidi e il volto pallido: era padre anche lui di una bambina pressappoco della sua stessa età. Le si inginocchiò accanto, prendendole una fredda manina tra le sue e, con voce tremante, disse la cosa peggiore che si potesse annunciare:
«Mi dispiace, se n’è andata…».
Filomena levò gli occhi verso la nonna che subito le si era accostata per abbracciarla. Con voce candida, la piccola ruppe la melodia tragica dei singhiozzi che le suonava attorno, come una musica spettrale:
«Dov’è andata la mia mamma, senza di me?».
Il padre, con gli occhi pieni di rabbia, tentò di mascherare quel sentimento con un timbro dolce della voce:
«In cielo, tesoro, insieme agli angeli».
La febbre spagnola, conosciuta anche come la grande influenza, si era portata via Amelia in quel gelido mese invernale.
Correva l’anno 1922 e nessuno se lo aspettava: la prima guerra mondiale era finita da qualche tempo e la gente, stanca della fame, dei lutti e delle carestie, aveva creduto di poter pregustare le gioie della pace.
Invece, incurante dei loro poveri sogni, il virus mortale aveva già fatto comparsa qualche anno prima. La chiamavano febbre spagnola perché la stampa iberica fu la prima a parlarne, dopo la morte per causa sua del sovrano re Alfonso XIII.
Non esisteva una cura, né un vaccino, per quella che si rivelò la pandemia più catastrofica della storia dell’umanità.
Filomena tutte queste cose le ignorava, sapeva soltanto che le aveva strappato la mamma in pochi giorni.
Una sera, ad Amelia era salita la temperatura corporea e aveva iniziato a vomitare, ma quando cominciò a esserci sangue dalla bocca e dal naso, la bambina fu allontanata immediatamente e portata al riparo a casa dei nonni.


[1] Sant'Apollinare nel Novecento, tra storia, letteratura e traduzioni. A. Abbruzzese; S.Di Roberto. Pag. 35

                                                                                                        ***

"Cuore indiano", LFA publisher



Londra 1682


Anche quella sera mi sentivo irrequieta. Sì, anche, perché accadeva sempre con maggiore frequenza che il mio animo non fosse tranquillo.
Finalmente sola, chiusi la porta della fredda e austera stanza da letto della casa che tanto odiavo, mettendomi a sedere sull'elegante sgabello di velluto rosso per contemplarmi allo specchio, sospirando amareggiata.
D’un tratto poggiai lo sguardo sul riflesso del mio viso pallido e smagrito: i grandi occhi azzurri, un tempo vivaci e luminosi, ora erano segnati da una profonda stanchezza.
Fuori, oltre le mura dell’abitazione, lo scrosciare della pioggia diveniva insistente; il ticchettare dell’acqua sembrava voler scuotere, con invadenza, il mio animo ormai rassegnato.
Chiusi le palpebre per un momento, mentre mi accarezzavo le labbra carnose di un tenue rosa naturale con un gesto delicato delle dita affusolate. Lì dove lui, un tempo, aveva poggiato la sua bocca, facendomi assaporare il gusto inconfondibile della carnalità.
Non sai quanto mi manchi. Non lo immagini, non puoi, pensai in quell’istante. Cosa farei per poterti avere ancora un’ultima volta?
Un fremito mi percorse la schiena, provocandomi dei brividi lungo tutto il corpo al ricordo dei baci ardenti, delle sue calde labbra, di lui intento a sfiorarmi come mai nessuno prima aveva fatto.
Quando mi ridestai per colpa di un fragoroso tuono, gli oggetti attorno a me erano di nuovo immobili: l’elegante comò di legno sapientemente intarsiato, il letto a baldacchino, testimone del mio ripetuto sacrificio carnale, e le tende pesanti un poco sgualcite.
Tendaggi, coperte, lenzuola e ogni altro tipo di tessuto, compresa la mia vestaglia da camera, dovevano essere di colore rosso, seppur di tonalità diverse, come era stato disposto. Tinta che io, con l’andare del tempo, avevo iniziato a odiare ma mai chiesi di cambiare.
La tremula luce di una candela avvolgeva ogni cosa in una strana penombra, conferendo un aspetto minaccioso a ciò che mi circondava.
Chi ero diventata, ora? E perché sentivo l’angoscia di non poter vivere la mia esistenza?
Lo scricchiolio della porta che piano si apriva mi distrasse da quei tristi pensieri e, immaginando chi stesse per entrare, sul mio volto nacque un sorriso.
In un attimo, la serenità, seppur apparente, si fece largo nel mio animo quando, con la coda dell’occhio, vidi una manina che si aggrappava con forza alla fredda maniglia d’ottone.
Edward mi osservava taciturno, immobile appena oltre la soglia della camera. Scrutandomi con i suoi grandi e teneri occhi neri tentava, in tutti i modi, di fingersi tranquillo ma l’espressione del viso metteva in mostra tutta la paura causata dai boati minacciosi che facevano tremare le vetrate della stanza con il loro rimbombo.
Mi voltai verso di lui, guardandolo nel modo più dolce e rassicurante possibile. Solo in quel momento il piccolo prese coraggio.
«Madam  Bennett, posso rimanere un pochino qui con voi?» m’implorò con voce flebile.
La sua espressione sembrava quella di un cucciolo smarrito, così gli tesi la mano con fare materno mentre lui accennava un timido inchino.
 Corse felice verso di me senza farsi pregare e, abbracciandomi, affondò la testolina nera sul mio petto.
Quell’amorevole e istintivo gesto mi fece abbassare il viso per respirare l’odore dei suoi capelli, godendo dell’intimità di quel prezioso attimo.
In passato avevo avuto ben poche occasioni così. Dal giorno della prima bugia, che mi costrinsero a raccontare al bambino, e da quello in cui George mi impose di assumere un atteggiamento distaccato nei confronti di Edward, non avevo potuto fare altro che mantenere la facciata di donna forte.
Tuttavia, in barba a quegli stupidi ordini, dissi al piccolo: «Mister Bennett è in viaggio quindi, se ti fa piacere, puoi dormire qui con me per questa notte.»
Edward mi guardò raggiante, con gli occhietti spalancati dalla sorpresa.
«Dite davvero, madam  Bennett?»
Gli indicai il letto annuendo con il capo, guardandolo prendere la rincorsa e gettarcisi dentro. Una risata argentina echeggiò nella stanza mentre osservavo quell’enorme coperta sotto cui si era tuffato, che sembrava volerlo inghiottire da un momento all’altro.
Quando il monello cominciò a saltare sul materasso con l’intenzione di voler giocare, parve ancora più piccolo dei suoi cinque anni e mi fece provare una tenerezza infinita.
Pagherei oro, donerei le ricchezze di mio marito o i miei preziosi e inutili gioielli  per poterti vedere ogni giorno così felice, pensai mentre mi alzavo dallo sgabello per raggiungerlo.
Per un attimo immaginai lo sguardo indignato di George se ci avesse sorpresi in quel tenero momento, ma scrollai le spalle con indifferenza: il bisogno d’affetto di Edward contava più di quegli stupidi ordini.
Giocammo per una buona mezz’ora, finché non lo vidi meno reattivo.
«Che ne dici, piccolo, se ci coricassimo per dormire? Ammetto di essere stanca e poi è tardi» gli proposi carezzandogli la testolina.
Accettò, come sempre quando gli proponevo qualcosa, con il suo solito fare dolce e collaborativo. Mai mi avrebbe fatto un dispetto o un torto, ancor meno si sarebbe opposto a un mio ordine.
Passò, però, del tempo e lui non accennava a dormire; lo sentivo sbuffare e rigirarsi più volte nel letto finché mi decisi a chiedergli cosa lo rendesse così irrequieto.
«Che cosa c’è, cucciolo? Lo sai che i bambini dormono a quest’ora?»
Due occhietti vispi e furbi, per niente assonnati, si affacciarono svelti da sotto il lenzuolo, poi lesto rispose: «Se  mi raccontaste ancora una volta la storia della mia mamma, sono sicuro che prenderei subito sonno. Questa notte vorrei tanto sognarla.»
A quelle parole mi si annebbiò la vista dalla commozione, subito sentii il cuore rompersi in tante piccole schegge come fosse stato di vetro. Deglutii per nascondere l’emozione e, paziente, cominciai il mio racconto.
«Sai, Edward, che tu mi faccia questa domanda mi riempie di gioia. Aspetta…» gli dissi, alzandomi e compiendo i pochi passi che mi separavano dal cassettone, poi presi lo specchietto e ritornai sotto le coltri. «Ecco, guardati… vedi il tuo bel visino angelico? Tu le assomigli moltissimo.»
Il bimbo mi ascoltava incantato mentre descrivevo la sua mamma come una donna bellissima, dai lunghi capelli neri, gli occhi un po’ a mandorla, scuri come i suoi, buona e protettiva nei suoi confronti.
«Come voi, madam  Bennett?» mi chiese. «Anche voi siete protettiva nei miei confronti…»
«Ancor di più. Per te, la tua splendida madre ha sempre desiderato il meglio. Voleva che ti fosse concesso di vivere bene, di crescere forte e con grandi valori, ma anche amato e accudito come lei avrebbe fatto.»
Lo affidò a noi, gli dissi, a pochi mesi dalla sua nascita: aveva contratto una grave malattia e la sua unica preoccupazione era quella di lasciarlo solo al mondo.
A quel punto vidi comparire una lacrima sul viso del piccolo e capii, dal dolore forte che sentii nel petto, quanto mi costasse mentirgli. Per rincuorarlo mi affrettai a dirgli che la sua mamma era un angelo in cielo e da lì lo avrebbe protetto ogni giorno della sua vita.
Edward, nell’udire quelle parole, sembrò sentirsi al sicuro, anche se dal suo sguardo trapelava un immenso bisogno d’affetto.
«Vieni qui, fatti cullare» gli dissi.
Solo allora lui si tranquillizzò e, in poco tempo, ci addormentammo abbracciati.
 Nel bel mezzo della notte mi svegliai di soprassalto, ansimando, con il cuore che batteva all’impazzata e la fronte imperlata di sudore.
Quell’incubo, ormai sempre più frequente, mi aveva fatto di nuovo la sua terribile visita; cercai di calmarmi e con la mano sul petto cominciai a fare dei respiri profondi.
Lentamente, mi voltai verso il bambino. Quando lo vidi dormire, così delicato e con l’espressione serena di chi faceva sonni beati, mi calmai. Non potevo dirgli che per lui provavo il sentimento più forte e vero mai provato in vita mia.
Nemmeno che, con la sua nascita, mi aveva salvato da un mondo fatto di tremende bugie e odio profondo. Rassegnata, spensi la candela, per non rischiare d’interrompere il riposo di Edward.
In quel momento, al buio, riaffiorarono prepotenti i ricordi.
                                                                 ***


                                       Non odiare il sole


Capitolo I





Il vestito da sposa poggiato sul letto è di un bianco così abbagliante che mi acceca solo a guardarlo. Mia madre non smette di ammirarlo e toccarlo; euforica, lo accarezza con le mani un poco tremanti.

Capisco la sua emozione, anche se non è la mia. Lei, al contrario di me, si è sposata per amore e ha lottato per avere mio padre. Una donna irlandese che si è unita a un inglese, una cosa rara allora come adesso.

Si volta, guardandomi con gli occhi lucidi. «Avanti, Ailin, indossalo. Vediamo se occorrerà stringerlo ancora.»

Annuisco, remissiva e obbediente. Intorno a me le cameriere si affaccendano per aiutarmi. Le osservo, e mi sembrano due bambine eccitate, forse invidiose.

Lentamente mi spoglio e getto un’occhiata allo specchio. Il mio corpo candido e assai smunto sembra un frutto acerbo, ancora immaturo per accogliere nel grembo una nuova vita, eppure di qui a poco potrebbe accadere. Da brava moglie, dovrei garantire la discendenza a Ethan Mills, il pupillo di casa Collins. Infilo l’abito nuziale e noto l’espressione dispiaciuta di mia madre.

«Oh, Ailin, non ci posso credere, sei dimagrita ancora!»

Mi solleva la sottana per guardarmi le gambe. Trova i miei piedi poggiati uno sull’altro. Dal nervoso mi avvolgo una ciocca di capelli intorno alle dita. Li ho di un rosso vivo, tipico degli irlandesi, ma ultimamente sono così pallida che il colore sembra accentuare l’odiato incarnato del viso.

Mi abbassa la veste e finge un rimprovero tradito dallo sguardo dolce. «Smettila di accavallare i piedi in quel modo, sei buffa,» mi dice dandomi un colpetto affettuoso sulla guancia. «Cerca di stare composta. Sei la figlia di un baronetto inglese e da te si pretende un portamento signorile.»

«Vi prometto che comincerò a mangiare come un uomo. Mi rimetterò in forma per il matrimonio.»

Mia madre mi accarezza il volto, affettuosa come sempre. «Fallo anche per Mr. Mills. Sii sempre piacente e affettuosa. Non dare mai per scontato l’amore di un uomo; perché, una volta deluso, ci metterà poco a rivolgere l’attenzione altrove.»

Comanda alle serve di portare via il vestito. Si avvicina, mi scruta e, leggendo il mio sguardo come solo una madre sa fare, mi solleva il mento con le dita. «Tesoro mio, so bene perché sei triste e immagino sia lo stesso motivo che ti sta facendo dimagrire a vista d’occhio.»

Abbasso il viso per nascondere la lacrima che mi è sfuggita. Mi sono sforzata finora di non farla preoccupare, per non aggravare una situazione già complicata.

«Mi manca tanto, mamma. La mia vita è vuota senza di lei.»

Mi abbraccia, mi bacia la nuca e per un attimo mi sento protetta e amata. Io sono stata fortunata e questo mi fa sentire in colpa.

«Vedrai che andrà tutto bene, figlia mia. Ethan sta facendo tutto il possibile per ritrovarla. Quel ragazzo è stata una manna dal cielo per la nostra famiglia. Non potevi chiedere di meglio.» Mi dà un’ultima carezza sul viso e se ne va, lasciandomi sola con i miei pensieri.

Mi getto di peso sul letto, portandomi le mani dietro la nuca. Un sorriso sfiora per un istante le mie labbra.

Ripenso all’amata Irlanda; a quando, la mattina appena sveglia, mi affacciavo alla finestra della mia stanza per respirare a pieni polmoni l’aria frizzantina. I prati erano una distesa sconfinata di cui l’occhio non riusciva a distinguere la fine. Ora se allungo la mano mi pare quasi di toccare quel tappeto di velluto verde, immagino la sensazione di morbidezza tra le dita.

Lontano, le cime rocciose dei monti erano talmente appuntite che da bambina le osservavo timorosa, come fossero i denti aguzzi di una bestia feroce. Vicino casa passava un fiume, la cui acqua rifletteva il colore del cielo. Scorreva placido, ingannevole, e ai suoi lati si elevavano imponenti filari di cipressi.

I miei occhi non ammireranno più quell’armonia della natura o forse sono solo divenuti ciechi e non riescono a scorgere ciò che di bello c’è anche qui. Come potrebbero, del resto, se proprio in America ho perso mia cugina?



Gli eventi precipitarono il giorno che mio padre, soffocato dai debiti, rischiò di perdere la casa e i pochi terreni che gli erano rimasti. Fu Ethan a consigliargli di vendere tutto e seguirlo in America, la terra promessa. Lo avevo conosciuto durante uno dei tanti balli a cui mio padre mi trascinava con la speranza di trovarmi un fidanzato per risollevare la disastrosa situazione economica familiare.

Quella sera, al ballo, tutte le donne pendevano dalle labbra di Ethan Mills, tant’è che nel grande salone echeggiavano le loro risatine ridicole.

Bello lo era davvero. Di fianco agli altri uomini, la sua statura alta, il fisico atletico e i modi educati risaltavano, ponendolo al centro dell’attenzione.

Si avvicinò, guardandomi con gli occhi di un azzurro così chiaro da sembrare di ghiaccio, spostò il ciuffo biondo dietro l’orecchio e mi esaminò ammiccando. Imbarazzata, distolsi subito lo sguardo da lui per concentrarmi sulla pista da ballo.

«Signorina, permette?» richiamò ancora la mia attenzione con un sorriso impertinente che mostrava una fila di denti bianchi e regolari, coperti un poco dalle labbra così carnose che parevano quelle di una donna. Accettai per educazione e, non appena cominciammo a volteggiare, mi accorsi dell’eleganza del suo portamento e delle sue doti da ballerino. Ricordo ancora la frase che mi rivolse e che mi colpì tanto da rimanermi impressa: «Penso che una donna affascinante come voi meriti un abito migliore.»

Con una battuta mi aveva miseramente ricordato il motivo per cui ero lì: rimediare alla povertà che a breve avrebbe colpito la mia famiglia.

Mi indispettii molto di tanta irriverenza o forse odiavo il fatto che avessi bisogno proprio di uomini ricchi come lui.

Brigida, mia cugina, non lo sopportava e andò su tutte le furie quando lui si presentò a casa mia. Mio padre lo aveva invitato subito dopo aver fiutato il suo interesse nei miei confronti.

Ero combattuta. Lo sono tuttora. Mio malgrado, alla fine cedetti al suo fascino, proprio come le ochette presenti alla festa da ballo. Mi lusingava che un uomo come lui mi trovasse bella e mi volesse per sé. Tuttavia sono ancora intimorita da ciò che ne pensava Brigida. È sempre stata convinta che Ethan non sia l’uomo per me, perché ambiguo.

Mio padre, irremovibile, organizzò il fidanzamento in un lampo: pregustava la fine dei debiti, mentre Ethan Mills avrebbe ottenuto un titolo nobiliare per aumentare il lustro della sua ricca famiglia americana.

Però ora grava su di noi l’ombra di quel maledetto giorno, quando mio padre mi convocò nello studio. Ricordo ancora il tuffo al cuore che sentii nel vedere al suo fianco la mia dolce madre che piangeva straziata. Aveva gli occhi rossi e gonfi.

Rimasi paralizzata, un groppo alla gola non mi permise di chiedere nulla. Non riuscivo a respirare.

Mio padre, che sembrava l’unico a mantenere il controllo, fu il primo a parlare: «Figlia mia, dobbiamo andare via dall’Irlanda. Questa notte i tuoi zii sono stati uccisi durante una rappresaglia. Hanno pagato con la vita per essersi ribellati alla fame cui il signore delle loro terre li costringeva. Anche noi siamo in pericolo, tu sai che io stesso ho appoggiato le ribellioni. Ethan ci condurrà in America con lui.»

Tremante mi accasciai sulla sedia lì vicino, sentivo le forze venir meno. Tuttavia mi feci coraggio e mi pronunciai: «Brigida è morta?»

«No. Lei è riuscita a nascondersi e si è salvata. Ora è qui e sta riposando. È traumatizzata, ha i nervi scossi.»

Mia madre prese a singhiozzare più forte. «Ho perso il mio amato fratello. Dio mio, perché tutto questo?»

Mi avvicinai e la strinsi a me. «Madre cara, cercate di reagire. Saremo sempre una famiglia unita, ora c’è anche Mr. Mills con noi.»

Ecco, lo avevo detto e mi stupii non poco di me stessa. Sapevo solo che non avevo intenzione di dare ulteriori dispiaceri ai miei genitori. Ethan Mills era la nostra ultima speranza e ci avrebbe aiutati.



***


Con questi ricordi ad affollare i miei pensieri e un groppo in gola, pian piano scivolo nel sonno.







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