GLI INCIPIT DEI MIEI ROMANZI
"Come fiori tra le macerie", Capponi editore.
Nel salutare il nuovo secolo che si affacciava, un deputato disse:
«Se nell’ottocento che muore gli sforzi delle classi lavoratrici furono
soffocati, il secolo che nasce ne vedrà il trionfo. Se il fanciullo non ebbe
pane, né istruzione, se il vecchio non trovò letto e riposo, provvedi tu, o
secolo nuovo, a dare a tutti gli uomini lavoro, libertà e cibo!».[1]
Le parole entusiaste dell’uomo politico furono pura utopia, almeno per
la prima metà del XX secolo: lo sviluppo industriale aveva portato benessere
nel nord dell’Italia, ma lo stesso non si poteva dire per il centro-sud.
Come un cappio alla gola la povertà costringeva la gente a vivere sul
filo del rasoio, in bilico tra la vita e la morte. Così, la tanto nominata
America – neanche fosse stato il paese dei balocchi – e l’emigrazione verso
quel continente lontano, divennero il tentativo disperato di trovare una
soluzione a molti dei loro problemi.
La prima guerra mondiale, con il suo spreco di energie e risorse, aveva
lasciato un’Italia devastata dalla povertà. La gente era stremata, impaurita,
affamata.
Nonostante la guerra fosse finita, la paura non se ne sarebbe andata
mai, né nelle menti degli anziani né in quella dei bambini. Lì, dove aveva
lasciato solo dolore e povertà si doveva ricominciare, ripartire da zero.
La lira aveva perso il suo valore e i generi alimentari ebbero un
rincaro fino al 560%. Non era di certo facile per quelle famiglie che, già abituate
a campare con poco, dovevano andare avanti con sempre meno cibo nello stomaco e
sempre minor forza nel corpo.
Non potevano perdere un solo giorno di lavoro nei campi, loro unica
forma di sostentamento, ma la situazione era davvero difficile, terribile.
Quella sera, a dare man forte alla già tragica situazione nazionale, un
dramma familiare –considerato assai più grande per chi lo viveva–, si stava
consumando in un piccolo paese della Ciociaria, sfiorato dalle placide acque – almeno
all’apparenza – del fiume Liri, che vedeva la luce nelle sorgenti abruzzesi per
andarsi a gettare nel mar Tirreno.
Il suo nome fu inizialmente Liris
per i romani, modificato poi in Verde
nel medioevo, per la particolare alga che cresceva nelle sue acque quando
scorrevano tranquille e limpide.
In una piccola casa di quell’antico paese, Filomena stringeva forte al
petto la sua bambola di pezza. Era troppo piccola per capire cosa stesse
succedendo, eppure il suo cuoricino batteva impetuoso come se percepisse
un’imminente cambiamento. Riusciva a sentire gli animi agitati e tristi delle
persone che le stavano intorno.
Seduto davanti al camino, nonno Mario batteva ritmicamente il bastone di
legno, l’oggetto dal quale, ormai, dipendeva negli spostamenti. Affidava a lui
gli acciacchi dell’età avanzata e della dura vita passata a faticare nei campi.
Le ore trascorse sotto il sole cocente, in balìa del vento o del freddo, erano
tutte lì, segnate sulla pelle aggrinzita del volto.
Ogni tanto si toglieva il cappello, tirava fuori il fazzoletto dalla
tasca dei pantaloni e si asciugava, spento, ora la fronte, ora gli occhi, l’una
per il caldo del fuoco, gli altri per le lacrime commosse.
Anche nonna Caterina era irrequieta. Camminava, strisciando i piedi, dal
tavolo alla porta, dalla credenza alla piccola finestra, dove svettava il
genero che, piano, accarezzava su una spalla, tornando al tavolo per sedersi
sulla sedia consumata e sgangherata. Bevve un sorso d’acqua, poggiando il
bicchiere senza troppa convinzione, con la testa colma di pensieri.
Sempre con lo sguardo rivolto al pavimento e le labbra in movimento nel
dire una preghiera, accarezzava il piccolo Cristo attaccato alla catenina dal
quale mai si separava, chiedendo pietà dai dolori, da quella sofferenza già
troppo a lungo sopportata.
Nonostante avessero finito la misera cena da un pezzo e la cucina fosse
stata già rassettata, continuava a passare la pezza sul grande tavolaccio di
legno, ad alzarsi e risedersi, a muoversi per la stanza, ma si trattava di
gesti irrazionali. Filomena, infatti, vedeva il suo sguardo assente, perso in
cupe riflessioni di quella fredda sera di gennaio.
Suo padre Vincenzo se ne stava lì, muto, davanti alla finestra, con le
mani in tasca e l’aria affranta. Sembrava non ci fosse, in quella stanza: i
suoi pensieri se li portava via il vento, chissà dove, forse nei ricordi di un
matrimonio che all’inizio era sembrato felice ma che poi, il tempo, aveva
lentamente consumato.
Seduta sulla piccola sedia di paglia, Filomena guardava la sua bambola.
Amelia gliel’aveva costruita con tanto amore. Era raro possedere un
giocattolo a quei tempi, – spesso solo i figli dei benestanti potevano
permetterselo – e così, per la bimba, quella bambolina era preziosa più
dell’oro.
Ricordava ancora il giorno in cui la consumata mano della mamma la
cuciva, mentre lei l’osservava, ammaliata da così tanta bravura.
Con della vecchia tela di juta, sapientemente ritagliata e cucita su
tutti i lati, aveva formato un sacchettino, lasciando solamente un piccolo buco
da dove poter infilare numerosi rimasugli di stoffa. Rammendato il foro, con
dello spago legò i due angoli superiori del sacchetto, così da farne le manine.
Allo stesso modo aveva creato la testa, mentre con i fili di lana aveva
formato i capelli e usato due bottoncini per gli occhi.
Quello era stato il regalo per il suo quinto compleanno, festeggiato due
mesi prima e, da allora, non se ne era mai separata. La teneva sempre con sé,
come un portafortuna.
***
La porta della stanza da letto si aprì lentamente, cigolando.
Il dottor Di Giacomo comparve sull’uscio con le braccia penzoloni, lo
sguardo basso e accigliato. Era l’unico medico del piccolo paese e conosceva
quella povera gente da sempre, come facessero parte della famiglia.
Filomena non avrebbe mai dimenticato quella scena che le si sarebbe
impressa nella memoria per tutta la vita, manifestandosi, crudele, nei suoi
incubi notturni per svegliarla con la fronte imperlata di sudore, facendola
sussultare nel letto.
Il medico guardò la piccola con gli occhi lucidi e il volto pallido: era
padre anche lui di una bambina pressappoco della sua stessa età. Le si
inginocchiò accanto, prendendole una fredda manina tra le sue e, con voce
tremante, disse la cosa peggiore che si potesse annunciare:
«Mi dispiace, se n’è andata…».
Filomena levò gli occhi verso la nonna che subito le si era accostata
per abbracciarla. Con voce candida, la piccola ruppe la melodia tragica dei
singhiozzi che le suonava attorno, come una musica spettrale:
«Dov’è andata la mia mamma, senza di me?».
Il padre, con gli occhi pieni di rabbia, tentò di mascherare quel
sentimento con un timbro dolce della voce:
«In cielo, tesoro, insieme agli angeli».
La febbre spagnola, conosciuta
anche come la grande influenza, si
era portata via Amelia in quel gelido mese invernale.
Correva l’anno 1922 e nessuno se lo aspettava: la prima guerra mondiale
era finita da qualche tempo e la gente, stanca della fame, dei lutti e delle
carestie, aveva creduto di poter pregustare le gioie della pace.
Invece, incurante dei loro poveri sogni, il virus mortale aveva già
fatto comparsa qualche anno prima. La chiamavano febbre spagnola perché la
stampa iberica fu la prima a parlarne, dopo la morte per causa sua del sovrano
re Alfonso XIII.
Non esisteva una cura, né un vaccino, per quella che si rivelò la
pandemia più catastrofica della storia dell’umanità.
Filomena tutte queste cose le ignorava, sapeva soltanto che le aveva
strappato la mamma in pochi giorni.
Una sera, ad Amelia era salita la temperatura corporea
e aveva iniziato a vomitare, ma quando cominciò a esserci sangue dalla bocca e
dal naso, la bambina fu allontanata immediatamente e portata al riparo a casa
dei nonni.
[1] Sant'Apollinare
nel Novecento, tra storia, letteratura e traduzioni. A. Abbruzzese; S.Di
Roberto. Pag. 35
***
***
"Cuore indiano", LFA publisher
***
Non odiare il sole
Con questi ricordi ad
affollare i miei pensieri e un groppo in gola, pian piano scivolo nel sonno.
Londra 1682
Anche quella sera mi sentivo
irrequieta. Sì, anche, perché accadeva sempre con maggiore frequenza che il mio
animo non fosse tranquillo.
Finalmente sola, chiusi la porta
della fredda e austera stanza da letto della casa che tanto odiavo, mettendomi
a sedere sull'elegante sgabello di velluto rosso per contemplarmi allo
specchio, sospirando amareggiata.
D’un tratto poggiai lo sguardo sul
riflesso del mio viso pallido e smagrito: i grandi occhi azzurri, un tempo
vivaci e luminosi, ora erano segnati da una profonda stanchezza.
Fuori, oltre le mura dell’abitazione,
lo scrosciare della pioggia diveniva insistente; il ticchettare dell’acqua
sembrava voler scuotere, con invadenza, il mio animo ormai rassegnato.
Chiusi le palpebre per un momento,
mentre mi accarezzavo le labbra carnose di un tenue rosa naturale con un gesto
delicato delle dita affusolate. Lì dove lui, un tempo, aveva poggiato la sua
bocca, facendomi assaporare il gusto inconfondibile della carnalità.
Non sai quanto mi manchi. Non lo immagini, non puoi, pensai in quell’istante. Cosa farei per poterti avere ancora
un’ultima volta?
Un fremito mi percorse la schiena,
provocandomi dei brividi lungo tutto il corpo al ricordo dei baci ardenti,
delle sue calde labbra, di lui intento a sfiorarmi come mai nessuno prima aveva
fatto.
Quando mi ridestai per colpa di un
fragoroso tuono, gli oggetti attorno a me erano di nuovo immobili: l’elegante
comò di legno sapientemente intarsiato, il letto a baldacchino, testimone del
mio ripetuto sacrificio carnale, e le tende pesanti un poco sgualcite.
Tendaggi, coperte, lenzuola e ogni
altro tipo di tessuto, compresa la mia vestaglia da camera, dovevano essere di
colore rosso, seppur di tonalità diverse, come era stato disposto. Tinta che
io, con l’andare del tempo, avevo iniziato a odiare ma mai chiesi di cambiare.
La tremula luce di una candela
avvolgeva ogni cosa in una strana penombra, conferendo un aspetto minaccioso a
ciò che mi circondava.
Chi ero diventata, ora? E perché
sentivo l’angoscia di non poter vivere la mia esistenza?
Lo scricchiolio della porta che piano
si apriva mi distrasse da quei tristi pensieri e, immaginando chi stesse per
entrare, sul mio volto nacque un sorriso.
In un attimo, la serenità, seppur
apparente, si fece largo nel mio animo quando, con la coda dell’occhio, vidi
una manina che si aggrappava con forza alla fredda maniglia d’ottone.
Edward mi osservava taciturno,
immobile appena oltre la soglia della camera. Scrutandomi con i suoi grandi e
teneri occhi neri tentava, in tutti i modi, di fingersi tranquillo ma
l’espressione del viso metteva in mostra tutta la paura causata dai boati
minacciosi che facevano tremare le vetrate della stanza con il loro rimbombo.
Mi voltai verso di lui, guardandolo
nel modo più dolce e rassicurante possibile. Solo in quel momento il piccolo
prese coraggio.
«Madam Bennett, posso rimanere un pochino qui con
voi?» m’implorò con voce flebile.
La sua espressione sembrava quella di
un cucciolo smarrito, così gli tesi la mano con fare materno mentre lui
accennava un timido inchino.
Corse felice verso di me senza farsi pregare e,
abbracciandomi, affondò la testolina nera sul mio petto.
Quell’amorevole e istintivo gesto mi
fece abbassare il viso per respirare l’odore dei suoi capelli, godendo
dell’intimità di quel prezioso attimo.
In passato avevo avuto ben poche
occasioni così. Dal giorno della prima bugia, che mi costrinsero a raccontare
al bambino, e da quello in cui George mi impose di assumere un atteggiamento
distaccato nei confronti di Edward, non avevo potuto fare altro che mantenere
la facciata di donna forte.
Tuttavia, in barba a quegli stupidi
ordini, dissi al piccolo: «Mister Bennett è in viaggio quindi, se ti fa
piacere, puoi dormire qui con me per questa notte.»
Edward mi guardò raggiante, con gli
occhietti spalancati dalla sorpresa.
«Dite davvero, madam Bennett?»
Gli indicai il letto annuendo con il
capo, guardandolo prendere la rincorsa e gettarcisi dentro. Una risata argentina
echeggiò nella stanza mentre osservavo quell’enorme coperta sotto cui si era
tuffato, che sembrava volerlo inghiottire da un momento all’altro.
Quando il monello cominciò a saltare
sul materasso con l’intenzione di voler giocare, parve ancora più piccolo dei
suoi cinque anni e mi fece provare una tenerezza infinita.
Pagherei oro, donerei le ricchezze di mio marito o i miei
preziosi e inutili gioielli per poterti
vedere ogni giorno così felice, pensai mentre mi alzavo dallo sgabello per
raggiungerlo.
Per un attimo immaginai lo sguardo
indignato di George se ci avesse sorpresi in quel tenero momento, ma scrollai
le spalle con indifferenza: il bisogno d’affetto di Edward contava più di
quegli stupidi ordini.
Giocammo per una buona mezz’ora,
finché non lo vidi meno reattivo.
«Che ne dici, piccolo, se ci
coricassimo per dormire? Ammetto di essere stanca e poi è tardi» gli proposi
carezzandogli la testolina.
Accettò, come sempre quando gli
proponevo qualcosa, con il suo solito fare dolce e collaborativo. Mai mi
avrebbe fatto un dispetto o un torto, ancor meno si sarebbe opposto a un mio
ordine.
Passò, però, del tempo e lui non
accennava a dormire; lo sentivo sbuffare e rigirarsi più volte nel letto finché
mi decisi a chiedergli cosa lo rendesse così irrequieto.
«Che cosa c’è, cucciolo? Lo sai che i
bambini dormono a quest’ora?»
Due occhietti vispi e furbi, per
niente assonnati, si affacciarono svelti da sotto il lenzuolo, poi lesto
rispose: «Se mi raccontaste ancora una
volta la storia della mia mamma, sono sicuro che prenderei subito sonno. Questa
notte vorrei tanto sognarla.»
A quelle parole mi si annebbiò la
vista dalla commozione, subito sentii il cuore rompersi in tante piccole
schegge come fosse stato di vetro. Deglutii per nascondere l’emozione e, paziente,
cominciai il mio racconto.
«Sai, Edward, che tu mi faccia questa
domanda mi riempie di gioia. Aspetta…» gli dissi, alzandomi e compiendo i pochi
passi che mi separavano dal cassettone, poi presi lo specchietto e ritornai
sotto le coltri. «Ecco, guardati… vedi il tuo bel visino angelico? Tu le
assomigli moltissimo.»
Il bimbo mi ascoltava incantato
mentre descrivevo la sua mamma come una donna bellissima, dai lunghi capelli
neri, gli occhi un po’ a mandorla, scuri come i suoi, buona e protettiva nei
suoi confronti.
«Come voi, madam Bennett?» mi chiese. «Anche voi siete
protettiva nei miei confronti…»
«Ancor di più. Per te, la tua
splendida madre ha sempre desiderato il meglio. Voleva che ti fosse concesso di
vivere bene, di crescere forte e con grandi valori, ma anche amato e accudito
come lei avrebbe fatto.»
Lo affidò a noi, gli dissi, a pochi
mesi dalla sua nascita: aveva contratto una grave malattia e la sua unica
preoccupazione era quella di lasciarlo solo al mondo.
A quel punto vidi comparire una lacrima
sul viso del piccolo e capii, dal dolore forte che sentii nel petto, quanto mi
costasse mentirgli. Per rincuorarlo mi affrettai a dirgli che la sua mamma era
un angelo in cielo e da lì lo avrebbe protetto ogni giorno della sua vita.
Edward, nell’udire quelle parole,
sembrò sentirsi al sicuro, anche se dal suo sguardo trapelava un immenso
bisogno d’affetto.
«Vieni qui, fatti cullare» gli dissi.
Solo allora lui si tranquillizzò e,
in poco tempo, ci addormentammo abbracciati.
Nel bel mezzo della notte mi svegliai di
soprassalto, ansimando, con il cuore che batteva all’impazzata e la fronte
imperlata di sudore.
Quell’incubo, ormai sempre più
frequente, mi aveva fatto di nuovo la sua terribile visita; cercai di calmarmi
e con la mano sul petto cominciai a fare dei respiri profondi.
Lentamente, mi voltai verso il
bambino. Quando lo vidi dormire, così delicato e con l’espressione serena di
chi faceva sonni beati, mi calmai. Non potevo dirgli che per lui provavo il
sentimento più forte e vero mai provato in vita mia.
Nemmeno che, con la sua nascita, mi
aveva salvato da un mondo fatto di tremende bugie e odio profondo. Rassegnata,
spensi la candela, per non rischiare d’interrompere il riposo di Edward.
In quel momento, al
buio, riaffiorarono prepotenti i ricordi.***
Capitolo I
Il vestito da sposa poggiato sul letto è di un bianco così
abbagliante che mi acceca solo a guardarlo. Mia madre non smette di ammirarlo e
toccarlo; euforica, lo accarezza con le mani un poco tremanti.
Capisco la sua emozione, anche se non è la mia. Lei, al
contrario di me, si è sposata per amore e ha lottato per avere mio padre. Una
donna irlandese che si è unita a un inglese, una cosa rara allora come adesso.
Si volta, guardandomi con gli occhi lucidi. «Avanti, Ailin,
indossalo. Vediamo se occorrerà stringerlo ancora.»
Annuisco, remissiva e obbediente. Intorno a me le cameriere
si affaccendano per aiutarmi. Le osservo, e mi sembrano due bambine eccitate,
forse invidiose.
Lentamente mi spoglio e getto un’occhiata
allo specchio. Il mio corpo candido e assai smunto
sembra un frutto acerbo, ancora immaturo per accogliere nel grembo
una nuova vita, eppure di qui a poco potrebbe accadere.
Da brava moglie, dovrei garantire la discendenza a
Ethan Mills, il pupillo di casa Collins. Infilo l’abito
nuziale e noto l’espressione dispiaciuta di mia madre.
«Oh, Ailin, non ci posso credere, sei
dimagrita ancora!»
Mi solleva la sottana per guardarmi le gambe. Trova i miei
piedi poggiati uno sull’altro. Dal nervoso mi avvolgo una ciocca di capelli
intorno alle dita. Li ho di un rosso vivo, tipico degli irlandesi, ma
ultimamente sono così pallida che il colore sembra accentuare l’odiato
incarnato del viso.
Mi abbassa la veste e finge un rimprovero tradito dallo
sguardo dolce. «Smettila di accavallare i piedi in quel modo, sei buffa,» mi
dice dandomi un colpetto affettuoso sulla guancia. «Cerca di stare composta.
Sei la figlia di un baronetto inglese e da te si pretende un portamento
signorile.»
«Vi prometto che comincerò
a mangiare come un uomo. Mi rimetterò in forma per il matrimonio.»
Mia madre mi accarezza il volto, affettuosa come sempre. «Fallo
anche per Mr. Mills. Sii sempre piacente e affettuosa. Non dare mai per
scontato l’amore di un uomo; perché, una volta deluso, ci metterà poco a
rivolgere l’attenzione altrove.»
Comanda alle serve di portare via il vestito. Si avvicina,
mi scruta e, leggendo il mio sguardo come solo una madre sa fare, mi solleva il
mento con le dita. «Tesoro mio, so bene perché sei triste e immagino sia lo
stesso motivo che ti sta facendo dimagrire a vista d’occhio.»
Abbasso il viso per nascondere la lacrima che mi è
sfuggita. Mi sono sforzata finora di non farla preoccupare, per non
aggravare una situazione già complicata.
«Mi manca tanto, mamma. La mia vita è vuota senza di lei.»
Mi abbraccia, mi bacia la nuca e per un attimo mi sento
protetta e amata. Io sono stata fortunata e questo mi fa sentire in colpa.
«Vedrai che andrà tutto bene, figlia mia. Ethan sta facendo
tutto il possibile per ritrovarla. Quel ragazzo è stata una manna dal cielo per
la nostra famiglia. Non potevi chiedere di meglio.» Mi dà un’ultima carezza sul
viso e se ne va, lasciandomi sola con i miei pensieri.
Mi getto di peso sul letto, portandomi le mani dietro la
nuca. Un sorriso sfiora per un istante le mie labbra.
Ripenso all’amata Irlanda; a quando, la mattina appena
sveglia, mi affacciavo alla finestra della mia stanza per respirare a pieni
polmoni l’aria frizzantina. I prati erano una distesa sconfinata di cui l’occhio
non riusciva a distinguere la fine. Ora se allungo la mano mi pare quasi di
toccare quel tappeto di velluto verde, immagino la sensazione di morbidezza tra
le dita.
Lontano, le cime rocciose dei monti erano talmente appuntite
che da bambina le osservavo timorosa, come fossero i denti aguzzi di una bestia
feroce. Vicino casa passava un fiume, la cui acqua rifletteva il colore del
cielo. Scorreva placido, ingannevole, e ai suoi lati si elevavano imponenti
filari di cipressi.
I miei occhi non ammireranno più quell’armonia della natura
o forse sono solo divenuti ciechi e non riescono a scorgere ciò che di bello c’è
anche qui. Come potrebbero, del resto, se proprio in America ho perso mia
cugina?
Gli eventi precipitarono il giorno che mio padre, soffocato
dai debiti, rischiò di perdere la casa e i pochi terreni che gli erano rimasti.
Fu Ethan a consigliargli di vendere tutto e seguirlo in America, la terra
promessa. Lo avevo conosciuto durante uno dei tanti balli a cui mio padre mi
trascinava con la speranza di trovarmi un fidanzato per risollevare la
disastrosa situazione economica familiare.
Quella sera, al ballo, tutte le donne pendevano dalle labbra
di Ethan Mills, tant’è che nel grande salone echeggiavano le loro risatine
ridicole.
Bello lo era davvero. Di fianco agli altri uomini, la sua
statura alta, il fisico atletico e i modi educati risaltavano, ponendolo al
centro dell’attenzione.
Si avvicinò, guardandomi con gli occhi di un azzurro così
chiaro da sembrare di ghiaccio, spostò il ciuffo biondo dietro l’orecchio e mi esaminò
ammiccando. Imbarazzata, distolsi subito lo sguardo da lui per concentrarmi
sulla pista da ballo.
«Signorina, permette?» richiamò ancora la mia attenzione con
un sorriso impertinente che mostrava una fila di denti bianchi e regolari,
coperti un poco dalle labbra così carnose che parevano quelle di una donna.
Accettai per educazione e, non appena cominciammo a volteggiare, mi accorsi
dell’eleganza del suo portamento e delle sue doti da ballerino. Ricordo ancora
la frase che mi rivolse e che mi colpì tanto da rimanermi impressa: «Penso che
una donna affascinante come voi meriti un abito migliore.»
Con una battuta mi aveva miseramente ricordato il motivo per
cui ero lì: rimediare alla povertà che a breve avrebbe colpito la mia famiglia.
Mi indispettii molto di tanta irriverenza o forse odiavo il
fatto che avessi bisogno proprio di uomini ricchi come lui.
Brigida, mia cugina, non lo sopportava e andò su tutte le
furie quando lui si presentò a casa mia. Mio padre lo aveva invitato subito
dopo aver fiutato il suo interesse nei miei confronti.
Ero combattuta. Lo sono tuttora. Mio malgrado, alla fine
cedetti al suo fascino, proprio come le ochette presenti alla festa da ballo.
Mi lusingava che un uomo come lui mi trovasse bella e mi volesse per sé.
Tuttavia sono ancora intimorita da ciò che ne pensava Brigida. È sempre stata
convinta che Ethan non sia l’uomo per me, perché ambiguo.
Mio padre, irremovibile, organizzò il fidanzamento in un
lampo: pregustava la fine dei debiti, mentre Ethan Mills avrebbe ottenuto un
titolo nobiliare per aumentare il lustro della sua ricca famiglia americana.
Però ora grava su di noi l’ombra di quel maledetto giorno,
quando mio padre mi convocò nello studio. Ricordo ancora il tuffo al cuore che
sentii nel vedere al suo fianco la mia dolce madre che piangeva straziata.
Aveva gli occhi rossi e gonfi.
Rimasi paralizzata, un groppo alla gola non mi permise di chiedere
nulla. Non riuscivo a respirare.
Mio padre, che sembrava l’unico a mantenere il controllo, fu
il primo a parlare: «Figlia mia, dobbiamo andare via dall’Irlanda. Questa notte
i tuoi zii sono stati uccisi durante una rappresaglia. Hanno pagato con la vita
per essersi ribellati alla fame cui il signore delle loro terre li costringeva.
Anche noi siamo in pericolo, tu sai che io stesso ho appoggiato le ribellioni.
Ethan ci condurrà in America con lui.»
Tremante mi accasciai sulla sedia lì vicino, sentivo le
forze venir meno. Tuttavia mi feci coraggio e mi pronunciai: «Brigida è morta?»
«No. Lei è riuscita a nascondersi e si è salvata. Ora è qui
e sta riposando. È traumatizzata, ha i nervi scossi.»
Mia madre prese a singhiozzare più forte. «Ho perso il mio
amato fratello. Dio mio, perché tutto questo?»
Mi avvicinai e la strinsi a me. «Madre cara, cercate di
reagire. Saremo sempre una famiglia unita, ora c’è anche Mr. Mills con noi.»
Ecco, lo avevo detto e mi stupii non poco di me stessa.
Sapevo solo che non avevo intenzione di dare ulteriori dispiaceri ai miei
genitori. Ethan Mills era la nostra ultima speranza e ci avrebbe aiutati.
***
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