RECENSIONE AL ROMANZO "LA SALA DA BALLO" DI A.HOPE A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL".
“Vedete anzitutto con quanta preveggenza la natura madre e artefice del genere umano, ha badato perché non manchi in nessun luogo, per condimento, un zin zin di pazzia. Perché la vita umana non fosse un mortorio, quante passioni vi ha messo Giove. E in quantità molto maggiore della ragione! La proporzione è di cento a uno, quasi. Inoltre relega la ragione in un angoletto della testa, abbandonando tutto il resto del corpo al disordine della passione. E alla ragione, che è sola, oppose come due violentissimi tiranni, l’ira che occupa l’acropoli dal petto sino alla fonte stessa della vita, cioè il cuore, e la concupiscenza che estende il suo vastissimo impero giù sino al pube. Contro queste due potenze gemelle qual forza abbia la ragione, lo dichiara abbastanza la vita comune.”Elogio alla folliaErasmo da Rotterdam, 1508.
Recensire un romanzo come “La sala da
ballo” di A.Hope non è impresa assai facile per il turbinio di emozioni
che un argomento così delicato, come quello della follia, riesce a
scatenare nell’animo del lettore. La malattia mentale, come un marchio di Caino
pari a quello portato dagli ebrei, dagli omosessuali e, andando
indietro nel tempo, dalle streghe, adultere o semplicemente “femmine”.
Il romanzo è ambientato nei primi del
Novecento in Inghilterra. Una giovane donna di nome Ella Fay viene
internata nel manicomio di Sharston solo per essersi ribellata alla
schiavitù di un lavoro a cui era costretta perché povera.
“Nel quarto reparto filatura aveva visto la loro vita trasferirsi nelle macchine, mentre quelle si buttavano via. E per cosa? Quindici scellini a fine settimana, che per metà dovevi dare a tuo padre, e nient’altro davanti, giorno dopo giorno, mentre il resto scivolava via e ti veniva sonno, e tu ti prendevi le botte, e dalle finestre opache non potevi mai vedere il cielo.”
Eppure Ella ha trovato il coraggio di
vederlo il cielo, scagliando un rocchetto vuoto contro la finestra più
vicina. Il vetro è andato in frantumi e lei si è alzata in piedi
stordita dallo schiaffo d’aria fredda. Dunque internata per quale grave
motivo? Dov’era la malattia mentale nel suo gesto? Davvero bastava così
poco, a quei tempi , per chiudere una donna in un manicomio? Bastava
macchiarsi del diritto di ribellarsi a una condizione di sfruttamento?
Fin dal Settecento è evidente la funzione
di esclusione sociale di tali strutture ove venivano internate le fasce
più deboli: poveri, prostitute, alcolizzati, vagabondi ecc. Erano,
dunque, luoghi di contenzione e di isolamento, strumento atto a
garantire la sicurezza alla società “normale”. D’altronde in un periodo
di rapido sviluppo industriale bisognava eliminare i soggetti non
produttivi.
“Eppure notava come le sorveglianti osservavano le pazienti, e a volte ridacchiavano coprendosi la bocca. L’altro giorno aveva sentito l’infermiera irlandese chiacchierare con un’altra nella sua voce aspra da gazza: Non sono bestie? Anzi, peggio che bestie. Fanno schifo, eh? E poi non gli puoi togliere gli occhi di dosso un momento, dico bene?”
Vite spezzate per sempre, in luoghi dove la morte spirituale avveniva prima di quella fisica.
“Ci sono tre modi per uscire da qui. Puoi morire…Puoi fuggire…Oppure puoi convincerli che sei abbastanza sana per andartene.”
Personaggio positivo, barlume di speranza
nel trovare un poco di normalità, aiuto prezioso che fa sentire i
ricoverati persone e non oggetti “difettosi” è il medico di nome
Charles. Egli essendo anche un musicista, trova nella danza e nella
musica uno strumento terapeutico efficiente per i suoi pazienti. Il
giovane dottore ha idee innovative rispetto alla maggioranza dei suoi
colleghi, tant’è che decide di scrivere una lettera a Churchill.
“Vede, signore. Nel caso in cui il governo votasse, come credo che dovrebbe fare, contro la sterilizzazione obbligatoria, tramite adeguati investimenti e una buona amministrazione si potrebbero realizzare altre colonie come questa.”
Superò i campi con le mucche che pascolavano con i vitelli accanto:
“Disponiamo di quattro fattorie e oltre seicento acri di terreno. Le nostre mandrie di giovenche dell’Ayrshire producono novecento litri di latte al giorno. Non capita spesso che i nostri uomini siano inoperosi. Capisce? Qui c’è ben poco bisogno di strumenti di contenzione, e le catene usate a Bedlam sono state del tutto abolite. Al loro posto usiamo zappe e badili.”
Il lavoro è dunque usato per riabilitare
personaggi che in realtà, nel romanzo, appaiono nel pieno delle facoltà
mentali. Sono uomini e donne scossi da traumi legati al passato e per
questo resi vulnerabili, introversi ma molto sensibili, quasi avessero
paura di pretendere il diritto alla felicità e a vivere una vita
normale.
L’opera “La sala da ballo” della Hope non
può lasciare indifferente chi si immerge tra le sue pagine. Pur essendo
una lettura impegnativa riesce a far riflettere su un tema che non
appartiene solo al passato e che tutt’oggi è motivo di discriminazione
sociale.
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