La città diruta
Ninfa è un paradiso terrestre: entrandovi tutti i
sensi vengono storditi da un’innaturale sacralità. Calpestandone gli erbosi
sentieri si avverte il nostalgico primitivo contatto con la natura. Il
cinguettio degli uccelli, il lento e dolce fluire del fiume cristallino che l’attraversa,
le fronde danzanti degli alberi sembrano comporre una poesia i cui versi
scaldano l’anima. I ruderi delle case medievali, delle chiese, le mura, i
ponti, tutto è dormiente da secoli, nascosto dal folto della vegetazione e fa
di lei “la città diruta”.
La
distruzione di Ninfa
A causa di ostilità e rivalità politiche con gli
abitanti dei paesi vicini, nel 1381 Ninfa fu distrutta, affinché di lei non
rimanesse memoria. Al suono delle campane, levando in alto gli stendardi delle
loro città, gli abitanti di Sermoneta, Bassiano e Sezze l’assaltarono con l’ausilio
di armi e picconi, demolendo e bruciando le case e la rocca. Fu un triste
spettacolo di fiamme che avvolsero ogni cosa fino a incenerirla. Gli abitanti
che riuscirono a salvarsi trovarono rifugio a Norma. Ninfa non venne mai più
ricostruita: la malaria tornò a essere regina indiscussa del luogo, infestando
i numerosi acquitrini e la peste diede il colpo finale, diffondendosi nell’Italia
di inizio Quattrocento. Anche l’avvento delle armi da fuoco giocò a sfavore di
un’ipotetica rinascita di Ninfa perché la sua posizione pianeggiante l’avrebbe
resa, ora, troppo vulnerabile agli attacchi dei nemici.
La
leggenda
La leggenda
narra che un tempo Ninfa fosse un regno ricchissimo. L’unico tormento del re
era quello di riuscire a eliminare l’acqua stagnante della palude che ammorbava
la sua terra. Il sovrano lanciò, quindi, una sfida: avrebbe dato in sposa la
bellissima figlia, anch’essa di nome Ninfa, a colui che fosse riuscito in tale
impresa, realizzando un canale che avrebbe collegato le terre con il mare. I
due pretendi erano Moro e Martino, signori dei feudi vicini. Il primo era un malvagio
dedito alla magia nera e il secondo, invece, amava Ninfa e da lei era
corrisposto…
Qui mi interrompo e sapete perché? Su questi luoghi
da fiaba, sull’intrigante leggenda medievale e dopo aver visitato e studiato
numerosi testi circa la storia di Ninfa, io e Dario Pozzi abbiamo scritto un romanzo
dal titolo: “Lucrezia Borgia, incanto e
disperazione”. Il libro uscirà nei prossimi mesi e sarà edito da una casa
editrice. Vi starete chiedendo cosa c’entri Lucrezia Borgia con il 1300 e con
Ninfa, vero? Dovete sapere che Papa Borgia scomunicò i Caetani, signori di
Ninfa e Sermoneta, nel 1499 e l’anno dopo dispose la vendita dei feudi a favore
della figlia Lucrezia. Insomma, il nostro romanzo sarà la storia nella storia,
o se preferite, nella leggenda.
Il
romanzo
Estratto di “Lucrezia
Borgia, incanto e disperazione” di Monica Maratta e Dario Pozzi.
Stringono
un patto con la morte e con l’inferno, fanno sacrifici ai diavoli, li adorano,
fabbricano e fanno fabbricare immagini, anelli, specchi o ampolle e qualsiasi
altra cosa per legare magicamente a sé i diavoli, ad essi chiedono responsi. Oh
quanto dolore! Un tale morbo pestifero si diffonde per il mondo e contagia
sempre più gravemente il gregge di Cristo.
Giovanni
XXII, Super illius specula, 1326
Dall’alto
della torre del suo castello, Moro soleva invocare i demoni. Erano il suo
strumento di potere, a loro, chiedeva aiuto per i propri interessi.
Sapeva
di agire contro la Chiesa e di prodigarsi in una fede opposta a quella
cristiana, ma il suo animo agognava il maligno. Tale indole gli era stata
trasmessa dai suoi avi: fu il padre a iniziarlo alle pratiche della magia nera
e gli risultò semplice, cedere al fascino del Demonio, in quanto era stato
cresciuto senza amore, umiliato e percosso per ogni futile motivo. Durante
l’infanzia, infatti, non aveva conosciuto né carezze né dolcezza, neanche dalla
madre che era succube del marito violento.
Moro
non si privava dei più orrendi piaceri, tra questi uno in particolare lo
eccitava, portandolo al godimento con orrende e indescrivibili pratiche
sessuali: appena donne, sottraeva le fanciulle del suo feudo dalle braccia dei
genitori, e ne faceva sue amanti, senza che i parenti di quelle poverette
potessero intervenire. Per soddisfare la propria lussuria, alle malcapitate
veniva strappata la purezza nel modo più sadico che si potesse immaginare.
Dopo
aver indossato i paramenti magici, e aver afferrato il grimorio lasciatogli dal
padre, Moro entrò nel cerchio magico disegnato a terra, al cui interno era
raffigurato un complesso drahokonis per invocare i demòni. Tutt’intorno
numerose candele disegnavano curiose ombre sui muri di pietra.
(…)
Cesare,
non ti ricorda l’ingenuità e l’impeto fedele che un tempo Pantasilea aveva per
me? Tu l’hai amata, ne sono sicura. C’è stato un tempo in cui l’hai amata. Mi
sono sentita anch’io come la duchessina Ninfa, quando strappavo un gemito di
compiacimento a ogni passante che incrociava il mio viso. Ero sensuale e
innocente, ma ora cosa sono? La stessa sensualità e innocenza riesco ancora a
scorgerle in doña
Caterina, nonostante lei ami più la scienza che la poesia, ho scorto in lei una
strana curiosità ogni volta che mi accingo a scriverti. Lo sai che ti ama da
sempre, lo sai che tu la ami da sempre. È forse l’unico frutto che non hai mai
avuto il coraggio di cogliere, troppo rispettoso del nostro amato Francisco, ma
temi davvero che non voglia sua sorella e il suo adorato Cesare, suo fratello
per sentimenti e non per sangue, felici. Eppure qui non si parla della vostra
felicità, qui si parla della mia. Dovrei essere una madre appagata, ma la donna
che è in me preme e spinge nella ossessiva ricerca dell’amore. Sia anche esso
distruttivo come quello provato dalla schiava di Moro per il suo padrone, ma
che sia amore.
Commenti
Posta un commento