RECENSIONI

RECENSIONI



Titolo:  Come fiori tra le macerie     •    Autore:  Monica Maratta
    •    Editore: Capponi Editore
    •    Pagine:  140
    •    ISBN:  9788897066873
    •    Genere: Narrativa
    •    Formato: Cartaceo
    •    Prezzo:  € 15,00
 
 

Trama 
 
La storia, ambientata tra un piccolo paese della Ciociaria e la città di Roma, è liberamente ispirata alla vita della nonna dell’autrice. Siamo negli anni venti, in un’Italia sempre più povera e analfabeta. Filomena è una bambina dolce e serena quando all’improvviso il suo mondo cade a pezzi: la madre si ammala e muore, e il padre lascia il paese per rifarsi la vita all’estero. È un duro colpo per la piccola, costretta a crescere in fretta con l’aiuto degli anziani nonni. Diventata una bella ragazza, è molto ammirata in paese, specie da Peppino. Tra i due nasce un sentimento tenero, contrastato dai genitori del giovane che nutrono altre speranze per il figlio. Per guadagnarsi il pane e poter aiutare in casa, Filomena si trasferisce a Roma, dove incontra quello che crede l’amore della sua vita, ma che si rivela una cocente delusione. Ingannata e con il cuore a pezzi, cerca di andare avanti, senza mai rinunciare a se stessa e ai suoi sogni. Vittima di pregiudizi, la donna fa ritorno nel paese natio, per ricominciare, poco prima che l’Italia entrasse nella seconda guerra mondiale. La sua terra natale, situata sulla linea Gustav, è vittima di continui bombardamenti degli alleati. Filomena però non si perde mai d’animo. A guerra terminata rinascerà, insieme al paese pronto a guardare al futuro, come un fiore tra le macerie. 
 
Contenuti 
 
All’apparenza, sembra una storia d’amore e di guerra come molte altre, già raccontate in letteratura e sul piccolo e grande schermo. E invece è molto di più, è la storia di un intero Paese. Ci si ritrova, da lettori, a seguire le vicende di Filomena con il cuore in mano, ritrovando nel suo piccolo mondo, dolce e triste al contempo, un passato che non andrebbe dimenticato. Il passato delle donne d’altri tempi e forti di carattere, che camminavano sempre a testa alta nonostante tante avversità della vita. 
    
Ambientazione e personaggi 
 
Le descrizioni vivide, le poche pennellate che appaiono qua e là, danno la sensazione di stare nei luoghi insieme alla protagonista e a seguirla in ogni suo spostamento. L’atmosfera è quella tipica del passato, quando l’amore profumava di cannella, ma la vita non era proprio rose e fiori. I personaggi sono tratteggiati bene, con tutti i loro punti forti e deboli e li ho trovati abbastanza credibili. La più impressa rimane sicuramente la protagonista, con cui ogni lettrice romantica si potrà identificare. Colpisce molto la sua forza di andare sempre avanti e quell’animo battagliero che secondo me la contraddistingue anche nei momenti più tristi e duri. È una donna sì forte, ma anche orgogliosa, che non si fa mai mettere sotto. La si ama e ammira proprio per il suo carattere. I personaggi maschili non sono da meno. Sono entrambi tracciati bene, non solo per quanto riguarda l’aspetto fisico, ma anche caratterialmente. Ho apprezzato l’uso del dialetto nei dialoghi, che rende autentici la storia e i suoi protagonisti. 
 
Stile e forma 
 
La lettura è scorrevole e abbastanza fluida, grazie a una scrittura limpida. Lo stile è semplice ma molto curato. L’unica, piccola critica che mi sentirei di fare riguarda alcune frasi in cui si parla di fatti storici, che mi sono sembrate più da manuale scolastico. Un pochino fredde in confronto al registro narrativo, molto più soft ed emotivo.    
 
Giudizio finale
 
La storia è inquadrata bene nel suo genere. È un connubio tra lo storico e il romantico ben riuscito. Sarà il mio animo sensibile, però le vicende narrate mi hanno emozionato e commosso in più riprese. Mi sono ritrovata a sorridere con Filomena, ma ho anche sentito spesso la sua rabbia e il suo dolore. È una storia che ti prende, indubbiamente, nonostante la sua brevità. Ammetto che mi è rimasta la voglia di sapere di più su questa donna forte e sui risvolti successivi della sua vita. È stata una lettura molto piacevole, un vero tuffo nel passato per ricordare e soprattutto non dimenticare. La consiglio a tutti gli amanti del genere e non solo a loro.
https://www.amazon.it/Come-fiori-macerie-Monica-Maratta/dp/8897066879/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1494865422&sr=8-1&keywords=monica+maratta

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Recensione del romanzo "Nel cerchio del tempo", di Liliana Fiume. A cura di Monica Maratta per il blog Les fleurs du mal.

Nel cerchio del tempo è il libro di genere fantasy dell’autrice selfpublisher Liliana Fiume, genere che ha avuto, per buona parte del novecento, scarsi risultati in Italia a causa dell’influenza estetica di Benedetto Croce. Si assiste al grande ritorno del fantasy negli anni duemila, grazie alle riduzioni cinematografiche del romanzo “Il signore degli anelli” e al nuovo fenomeno letterario “Harry Potter”. Notevole poi il contributo di diversi medium come videogiochi, serie tv e fumetti.
   Il romanzo della Fiume si presenta ricco di colpi di scena tant’è che inizia, nel prologo, con un attacco all’accampamento dei Lupi Grigi dove si trova il protagonista. Si ha la sensazione di partecipare agli eventi come se ci si trovasse lì. In seguito, nella prima parte, si fa un passo indietro nel tempo e l’autrice comincia a costruire la trama dal principio.   Kronos, figlio del re Kollin a capo dei Kroll, viene nominato successore al trono dopo aver portato a termine un’impresa rischiosa e aver risvegliato i poteri della spada di un suo antenato. L’arma, infatti, era in grado di donare la profezia al suo possessore. Tutto ciò viene ricordato in sogno dalla moglie di Kronos, la regina Diastris. Notevole la destrezza con cui la Fiume guida lo spazio temporale maneggiando sapientemente il passato col presente e costringendo il lettore a non abbassare mai la guardia sulla trama, rendendolo ansioso di perdere gli intrecci del romanzo.  Nella prima parte del romanzo si ha difficoltà a seguire la storia a causa dei numerosi personaggi che interagiscono tra loro, ognuno con una vicenda personale che tuttavia l’autrice cura magistralmente.
I personaggi sono caratterizzati in maniera mai banale, grazie alla descrizione perfetta dei loro stati d’animo.  Un esempio ne è la presentazione del protagonista, Kronos il re dei kroll:
“ In sincronia col ritmo violento del suo sangue la piaga sulla guancia pulsava come una cosa viva. E in fondo lo era. Era parte di lui…
Si sforzò d’ignorarla, come gli era stato insegnato, ma era sempre più difficile ignorare la pena di una vita intera. Per un kroll il dolore non esiste, il freddo non esiste, la paura non esiste. Dimenticateli! Era quello che ripetevano fino alla nausea a tutti i guerrieri, fin dall’infanzia, e lui non era un soldato qualsiasi, era il re.”
Il male che sembrava essere stato sconfitto dal loro primo antenato Kronos, tornerà a riemergere dalle viscere della terra portando nel regno una serie di morti misteriose. Il compito dell’attuale re Kronos sarà quello di salvare il suo popolo sfidando la morte e mettendo a repentaglio la propria vita. Complotti, intrighi e passioni sono gli ingredienti del romanzo .
La costruzione della trama e la presenza del mito, dell’immaginazione e di elementi sovrannaturali come ad esempio i “Klugh”, una razza semi umana che vive nelle paludi, o i “krill”, classificano l’opera come appartenente al genere classico del fantasy.
Gli abitanti del sottosuolo erano krill, così assuefatti a quel mondo oscuro e silenzioso, che difficilmente risalivano in superficie.
Lo stile della Fiume è semplice ma curato, i periodi utilizzati non sono mai eccessivamente lunghi o complessi, inoltre il testo mostra di possedere un buon equilibrio tra le descrizioni e i dialoghi.
Lettura consigliata non solo agli amanti del genere ma anche ai lettori principianti del fantasy, grazie alla trama ricca di eventi sorprendenti, a una buona descrizione degli ambienti magici e alla creazione di personaggi dal profilo psicologico profondo.https://www.amazon.it/Nel-cerchio-tempo-Liliana-Fiume-ebook/dp/B00JWWBPII/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1494865796&sr=8-2&keywords=nel+cerchio+del+tempo

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Recensione al mio romanzo Cuore indiano, LFA publisher, da parte del blog Les fleurs du mal.

Jamestown 1682.
“Finora ho solo creduto di vivere, la mia esistenza è sempre stata quella di una marionetta guidata con sapienza dalle mani di mio padre “.
Eleanor è cresciuta con la convinzione che gli indiani fossero solo un popolo selvaggio e invece la notte in cui avvenne l’ aggressione e il rapimento di Eleanor da parte dell’ indiano Aldahy, cambiò notevolmente la sua visione della vita, della comunità indiana e scoprirà finalmente l’ amore.
È un amore selvaggio nato dall’odio e dalla vendetta di Aldahy per tutto l’ atroce dolore subito a causa dei coloni, un Amore che fiorirà’ con tutta la forza e l’ intensità del vero Amore: passione, protezione e rispetto reciproco.
Eleanor e Aldahy divisi dalla cattiveria e presunzione della società inglese. Eleanor e un figlio, frutto del loro Amore, da nascondere e celare agli occhi del mondo come qualcosa da disprezzare.
Eleanor riuscirà davvero a sopportare il peso di una bugia così grande e soprattutto contro natura? Far finta che Edward è solo un trovatello, negargli gli abbracci e le parole confortanti di una mamma. Difficile sarà accettare il suo matrimonio con Mr. Bennet, un matrimonio di convenienza per assicurare un futuro ad Edward.
” Non sarò una moglie ostile, ma al momento non posso assicurargli il mio cuore” .
Un matrimonio nato su bugie e compromessi è un matrimonio infelice ed Eleanor lo capirà sulla sua pelle, la felicità è solo racchiusa in Aldahy e il suo ritorno in Virginia. Commovente e liberatorio, l’ abbraccio della mamma di Eleanor
” Il tuo cuore e’ sempre stato puro. Non avresti mai potuto vivere senza amore, come ho fatto io”…” Il mio è un cuore indiano, cara madre “.
Lo stile di Monica Maratta affascina con semplicità disarmante, leggere il suo romanzo mi ha proiettato nell’Inghilterra del 1682 ,
l’ uomo bianco e il suo razzismo“, il profondo odio nei confronti di una comunità definita ” selvaggia e senza Dio “, un odio trasformatosi in atroci delitti e vittime innocenti.
Una piacevole lettura, complimenti.
Buona lettura Ilariahttps://www.amazon.it/Cuore-indiano-Monica-Maratta/dp/8899972451/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1494866080&sr=8-1&keywords=cuore+indiano

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Recensione di Hackerami il cuore, Fina Sanfilippo, a cura di Monica Maratta per il blog "Les fleurs du mal"

Hackerami il cuore, dell’autrice Fina Sanfilippo, non è il solito romanzo stereotipato dai canoni del genere rosa in voga al momento. Si rimane piacevolmente conquistati dalla protagonista femminile, Antonietta Berardi, un’italiana trasferitasi in America per realizzarsi professionalmente. Lei non è una donna come le altre, è intelligente e lo si vedrà anche dal lavoro che svolge, ha sani principi morali e conduce una vita anonima, al fianco di due amiche inseparabili, Patty e Federica, che l’autrice ha caratterizzato in maniera da renderle l’una l’alter ego dell’altra.
La trama ha un intreccio ben sviluppato. All’inizio John Spencer appare come il classico belloccio, ricco e famoso ma in realtà è molto di più, possiede doti preziose che solo lei, la donna più comune che potesse conoscere, riesce a tirare fuori. John, infatti, ha un passato molto triste che cerca di nascondere per difendersi. Il suo vissuto è talmente doloroso che si è costruito una maschera, un’arma che lo aiuta a non lasciarsi andare al vero amore.
Antonietta però è diversa, non si piega al gioco iniziale dell’uomo e gli tiene testa, al punto che John è costretto a mettersi in discussione come uomo.
Grazie a un sapiente intreccio della trama, l’autrice riesce a catturare l’attenzione del lettore. Inserisce, infatti, un elemento di mistero, rendendo il romanzo un rosa contemporaneo con sfumature tinte di giallo.
C’è un cracker che minaccia John ed è per questo motivo che l’uomo conosce Antonietta: solo lei può aiutarlo, in quanto lavora nel campo dell’informatica come hacker.
Nessun personaggio femminile stereotipato, dunque, come richiedono i canoni dell’ultima tendenza in fatto di rosa contemporanei. Non abbiamo una donna succube e impotente di fronte al fascino dell’uomo potente, ricco e anche violento.
Lo stile dell’autrice, scevro da parole ampollose, è  semplice, scorrevole ma curato.https://www.amazon.it/Hackerami-il-cuore-Fina-Sanfilippo-ebook/dp/B06XFSGD9T/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1494866370&sr=8-1&keywords=hackerami+il+cuore


 RECENSIONE DELLA MIA NOVELLA "INCANTO E DISPERAZIONE, LA LEGGENDA DI NINFA", A CURA DEL BLOG "LA BIBLIOTECA DI MARY"



INCANTO E DISPERAZIONE,La leggenda di Ninfa
MONICA MARATTA
GENERE:NARRATIVA
PAGINE:63



TRAMA

Liberamente tratto da un’antica leggenda medievale della cittadina di Ninfa. La giovane figlia del feudatario e il nobile Martino s’innamorano perdutamente ma solo chi aiuterà il duca Pietro a sconfiggere la palude che ammorba il suo regno potrà prenderla in sposa. La felicità di Ninfa non è importante come il tentativo di salvare l’onore della parola data. Tra intrighi, violenze e passioni due giovani lottano per il loro amore.


Ecco cosa ci racconta Laura...


Eccomi dopo aver finito un'altro libro (sono brava in questo periodo eh! dovete ringraziare mia figlia che la notte non dorme e quindi io per evitare di buttarmi dalla finestra - abito al piano terra - mi metto a leggere) ok ok sto perdendo di nuovo la tramontana e invece che recensire sto per raccontarVi la mia vita quindi meglio che mi fermo e mi metto a recensire...
Cosa dire se non che mi sono persa fra le pagine di questo libro? sarò stato che ero stanca, era notte...o forse semplicemente le parole sono scritte talmente bene che una dietro l'altra ti entrano in testa e in men che non si dica ti ritrovi a metà libro...vero che il libro non è lunghissimo (e ammetto che mi è spiaciuto un sacco dover lasciare Ninfa, Martino e Beatrice che anche se ha un ruolo secondario mi è rimasta subito simpatica)chissà se potrà mai esserci un seguito...io nel mio piccolo e umile pensiero ci spero...non si sa mai...
Ho scelto questo libro leggendo le prime tre righe della trama ed ecco quali parole mi hanno fatto decidere che sarebbe stato LUI il mio prossimo libro: ANTICA - LEGGENDA - MEDIEVALE
Il perchè è molto semplice...tutto ciò che è antico mi affascina...tutto ciò che è leggenda mi fa sognare...e il medioevo è uno dei miei periodi storici preferiti (anche se ammetto che mi piacciono un po' tutti)
Ho amato questo libro da subito...le descrizioni dettagliate degli ambienti e dei vestiti mi hanno permesso quasi di poter sentire, vedere e toccare quello che leggevo...i personaggi mi sono arrivati subito con la loro personalità...la delicata, dolce ma determinata Ninfa, Martino che all'inizio si è presentato ai miei occhi come un uomo spavaldo si è trasformato poi nell'uomo innamorato e premuroso...Moro che impersona l'arrivismo, la malvagità e tutto ciò che di più brutto  ci puo' essere...Edea che fin da subito mi ha trasmesso un mix di sensazioni tra antipatia e dispiacere per la sua condizione...e Beatrice che, ripeto, nonostante nel libro sia un personaggio secondario, mi ha colpita e mi è stata subito simpatica...
Amo questo genere di libri dove l'amore e la passione si riescono a rivivere con un po' di riserbo...non amo i romanzi rosa a meno che questi non siano ben omologati in una storia, ambiente e contesto...ammetto di restare sempre piacevolmente sorpresa quando qualcuno riesce ancora a descrivere l'amore a la passione con la delicatezza di un fiore senza franare nel volgare (che non equivale ad erotico anzi) e questo libro ci è riuscito...una carezza che fa arrivare mille emozioni! cosa volete di più?
Ammetto che su alcune cose del finale mi sarei aspettata un maggior approfondimento (non vi dico su cosa altrimenti vi tolgo il gusto di leggerlo) ma questo mi lascia illusione che un giorno ci sia un seguito...e se così fosse non vedo l'ora di leggerlo!

Buona Lettura
StrambaMamma
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RECENSIONE AL ROMANZO "LA CORTIGIANA" DI S.DUNANT A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL"






Il romanzo “La cortigiana” di S. Dunant inizia con un’affascinante e dettagliata ricostruzione della Roma maltrattata e morente della prima metà del Cinquecento. Una città che con l’arrivo dell’esercito spagnolo perse la superbia di credersi inespugnabile. Un’effimera illusione mostrataci dal personaggio narrante nel primo capitolo, ovvero il servo di Fiammetta Bianchini. Egli impietoso mostra al lettore tutta l’inadeguatezza di un esercito romano impreparato e arrabattato alla meno peggio. Ripensando all’ultima guerra mondiale, il lettore non potrà non convincersi di quanto ciò sia sempre stata una caratteristica del nostro paese, ossia mandare a morire giovani uomini, gettandoli allo sbaraglio senza l’ausilio di un’adeguata preparazione militare o dei mezzi necessari.
Illustrato con precisione, poi, il cinismo tipico dei ricchi, in questo caso della padrona di casa, tale Fiammetta, che nell’imminente attacco dei nemici, si adopera minuziosamente a nascondere i suoi beni e ad assicurarsi la fedeltà dei suoi servi. Desiderosa, bramosa, di non perdere gli oggetti materiali abbandonando ogni traccia di spiritualità nel suo animo. Ancora una volta ecco il ripetersi della storia, tale atteggiamento lo si rivedrà negli ebrei intenti ad ingoiare gli anelli d’oro, avvolti nella mollica di pane, pur di non cederli alle mani tedesche.
Interessante anche l’introduzione di personaggi noti, mostrati nelle loro bassezze.
In seguito, l’orafo Benvenuto Cellini si vantò della propria prodigiosa mira con chiunque volesse ascoltarlo. Ma d’altronde Cellini si vantava di qualsiasi cosa. A sentirlo parlare, come non smetteva mai di fare- sia nelle case dei nobili sia nelle taverne dei quartieri poveri- si sarebbe detto che lui solo fosse responsabile della difesa della città. Nel qual caso dovremmo prendercela con lui per quel che seguì…”
Stupefacente la bravura dell’autrice nello spiegare, con disarmante semplicità, i meccanismi che hanno scatenato gli eventi illustrati nella trama, anche al lettore meno avvezzo ai fatti storici o a leggere un romanzo di tale genere.
Spietata l’ironia con la quale vengono palesate le bassezze ecclesiastiche dell’epoca, come a dire che proprio nel momento del bisogno e nell’urgenza cadono perfino le maschere dipinte meglio.
“ Alcuni ecclesiastici, vedendo che per loro si avvicinava l’ora del giudizio, distribuirono gratuitamente assoluzioni e indulgenze, ma altri misero insieme un bel gruzzolo vendendo il perdono a prezzi esorbitanti.”
Caratterizzata con sapiente maestria la protagonista Fiammetta, come prima accennato. Una donna scaltra, furba e intelligente. Una cortigiana che, conoscendo a fondo la psicologia degli uomini, saprà come affrontare il nemico che si presenterà in casa sua:  offrendo loro un ricco banchetto e se necessario il suo stesso corpo.
Il Sacco di Roma viene narrato dalla Dunant con una meticolosità tale da far credere al lettore di esserne spettatore vivente.
“Ora la piazza era silenziosa, e i nostri vicini morti o bene imbavagliati. Intorno a me Roma era stretta tra il fuoco e l’alba; parte della città mandava bagliori come di tizzoni ardenti nel buio, mentre a est nuvole di fumo salivano in lente spirali verso un trasparente cielo grigio carico della promessa di un’altra giornata perfetta per uccidere.”
La seconda parte del romanzo si svolge a Venezia, dove Fiammetta fugge con il servo Bucino, abbandonando una Roma stuprata per tornare nella terra dov’era nata. L’opera non è solo la perfetta rielaborazione romanzata  di un grande evento storico , ma è l’intento, riuscito, di mostrare tutta la vulnerabilità di quelle che giudichiamo certezze della vita. Fiammetta in pochi giorni perde tutto, la stabilità economica e l’equilibrio sereno non sono garanzia di eternità.  Si ritrova a guardare, riflesso allo specchio, lo spettro di ciò che era e non è più. Deve ricominciare a vivere, deve usare tutta la sua astuzia e l’intelligenza per risorgere.
Bellissimo romanzo storico che, sullo sfondo di un grande evento, tale è stato il Sacco di Roma, narra con maestria la piccola storia, l’unica in grado di mettere in luce l’umanità e il profilo psicologico delle persone vissute in quell’epoca.

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Recensione di "La donna di Einstein" M. Benedict, Piemme edizioni, a cura di Monica Maratta per il blog "Les fleurs du mal".

La donna di Einstein è un libro eccezionale, poiché possiede non solo il fascino di un romanzo storico che narra le vicende di un personaggio importante, soddisfacendo la curiosità del lettore che, leggendolo, scopre i retroscena intimi della sua vita, mettendo in luce difetti umani insospettabili, ma perché la protagonista è la consorte e madre dei suoi figli, in un contesto di disagiata condizione femminile.
Necessaria, quindi, un’introduzione alla vita sociale delle donne nel 1800, periodo ancora loro poco favorevole in cui si parla e si scrive molto sul gentil sesso, soprattutto da parte degli uomini. Vengono esaltate ma solo se buone madri e “regine” del focolare domestico. I rivoluzionari avevano giustificato la negazione dei diritti alle donne sostenendo che affidare ad esse un ruolo domestico significava garantirne la felicità. Tale comportamento lo si ritroverà durante la Restaurazione, nell’ Inghilterra della regina Vittoria. In Italia, in ambiente borghese e aristocratico, si elevò a modello la donna religiosa e patriottica. Il suo esclusivo ambiente era la famiglia; doveva assoggettarsi a un marito impostole dai genitori e sognare, solo sui libri, un amore romantico. Libertà di lettura non ampia, tra l’altro, in quanto i romanzi erano considerati poco adatti alle ragazze, per le quali si preferivano libri religiosi o educativi.
Tale, breve, introduzione sull’argomento, su cui ci sarebbe stato ancora molto da dire, è necessaria per comprendere il contesto in cui è calato il personaggio femminile del romanzo: Mileva Maric , studiosa di fisica e matematica, di origine Serba.
Si potrebbe pensare a una donna avanti con i tempi, dunque, emancipata ed è ciò che sembra nella prima parte dell’opera, finché, grazie ai ricordi della sua infanzia, il lettore apprende che è una donna menomata da una malformazione all’anca e, una fanciulla in quelle condizioni non la vorrebbe nessuno, non è neanche adatta a diventare madre. Dunque Mileva è, in realtà, discriminata e la libertà di dedicarsi agli studi, concessale  dal padre, è una prigione dorata, seppur amata, in cui lei si rifugia negando un eventuale amore. E ancora la discriminazione nei suoi confronti la farà da padrone nell’università svizzera in cui andrà a studiare e dove conoscerà A.Einstein. Discernita nel suo nuovo ambiente, perché donna che pretende di avere un’intelligenza oltre che penalizzata fisicamente. Inizialmente, quindi il lettore troverà nello scienziato famoso un animo nobile che va oltre tutto questo, innamorandosi di Mileva per le qualità che possiede e non per il suo essere “diversa”.  Insieme costruiscono un mondo solo loro, dove regna incontrastato l’amore per la scienza che diviene l’unico stimolo dell’ unione tra i due giovani. Le fragili fondamenta su cui poggia il sentimento che li unisce, crollano ai primi eventi che costringono i protagonisti a dirottare la concentrazione dal progetto scientifico a quello di vita. Mileva rimane incinta illegittimamente, poiché ancora non sposata e rischia di mandare all’aria i suoi studi oltre che essere preda di malelingue. Proprio da questo momento il lettore scoprirà un Einstein egoista e forse immaturo, incapace di umanità persino nei confronti di una figlia nata e ancora non conosciuta, perché lasciata a vivere in Serbia dai nonni materni. Lui deve sistemarsi, trovare un lavoro rigorosamente appagante  nel suo ambito e solo allora potrà sposare Mileva, prima di volere la figlia con sé. La bimba però si ammala gravemente ed è questo il momento in cui si nota che  la protagonista possiede un’intelligenza matematica e scientifica forse pari a quella del futuro marito, ma è anche dotata di un’umanità e senso del dovere genitoriale che lui, egocentrico e quasi fanciullesco, non ha.

Scarlattina? No,no, no, non la mia Lieserl.
I bambini morivano di continuo per la scarlattina. E, se anche non morivano, pativano atroci tormenti. Cicatrici, sordità, problemi renali, cardiopatie, encefaliti e cecità erano solo alcune delle conseguenze a lungo termine per i sopravvissuti.
Dovevo andare.
Mi asciugai le lacrime, corsi in camera da letto e mi accinsi a fare i bagagli. Stavo tirando giù il baule dalla cima dell’armadio quando sentii sbattere la porta dell’ingresso. Albert era rientrato presto.
Continuai a preparare le mie cose. Non potevo sprecare neanche un secondo, non avevo tempo di correre ad accogliere mio marito sulla soglia come facevo di solito.
“Dollie?” Il tono di Albert era perplesso.
“In camera da letto.”
Gli porsi la lettera continuando a riporre i miei effetti personali.
“Quindi hai intenzione di andare a Kàc?”
Lo fissai, sbalordita dalla domanda. Che altro si aspettava che facessi?
“Certo.”
“Quanto starai via?”
“Finché Lieserl non si riprende.”
“Non può pensarci tua madre? Rischi di stare via un’eternità. Una brava mogliettina non dovrebbe lasciare il marito da solo troppo a lungo. Come farò a cavarmela?”
Lo squadrai. Davvero erano “quelle” le sue domande? Oh, per se stesso si preoccupava eccome ma non una parola sulla scarlattina o su come stesse la bimba! Dov’erano la compassione, la preoccupazione per la figlia?

Dunque, non solo il genio non è un perfetto connubio di mente e cuore ma, oltrepassato il campo ove si misura il suo talento, sono palesi le gravi lacune a livello emotivo. D’altro canto la moglie, equilibrata e umana, arriverà per prima ad elaborare la teoria sulla quale Einstein si accaniva da parecchio tempo.

L’orologio. Il treno. Lieserl.
E in un lampo mi venne in mente. Cosa sarebbe accaduto se il treno avesse lasciato la stazione non a sessanta chilometri all’ora, ma a una velocità prossima a quella della luce?
Cosa sarebbe accaduto nel tempo?
Feci i calcoli a mente, abbozzai una soluzione. Se il treno fosse uscito dalla stazione a una velocità che si avvicinava a quella della luce, le lancette dell’orologio si sarebbero mosse comunque,ma il convoglio sarebbe avanzato tanto in fretta che la luce avrebbe faticato a stargli dietro. Più il treno avesse accelerato, più lente sarebbero diventate le lancette, sino a bloccarsi del tutto una volta che il treno avesse raggiunto la velocità della luce. Il tempo si sarebbe davvero fermato. E se il treno fosse potuto andare più veloce della luce- impossibile, ma lo ipotizzai per puro amore di speculazione- allora il tempo si sarebbe addirittura dipanato all’indietro.
Eccola! La nuova legge era semplice, e naturale. Le leggi universali di Newton si applicavano solo ai corpi inerti. Non ci si doveva più far vincolare dalle vecchie regole. Il tempo era relativo allo spazio. Il tempo non era assoluto.

Lei è più completa di Albert eppure, nonostante tutto, a causa del sesso a cui appartiene, in un’epoca dove era ancora considerato inferiore, sarà costretta a rimanere nell’ombra.
Come se non bastasse, dovrà fare da equilibrista in un matrimonio dove lei sola conosce il sacrificio. Seppure capirà che non è lui, il grande Einstein, l’uomo della sua vita, per amore di un nuovo figlio in arrivo e, in nome della morale dell’epoca, si adopererà per mettere in piedi una famiglia convenzionale.
Intelligente, acculturata ma lo stesso schiava della predominante mentalità maschile. 

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RECENSIONE DI "PROFUMO D'OTTOBRE, D'AMORE E DI GUERRA" DI A.CARAVANTE, A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL".


Napoli sepolta nella guerra non aveva avuto un suo poeta né un suo reporter, perché per tutti era stato troppo difficile e sorprendente il sopravvivere all’arida tragedia di quegli anni per poterla subito fissare e prolungare in una memoria, in un diario.”
Nello Ajello, 1954.

E’ stupefacente come a molti anni dalla tragedia della seconda guerra mondiale, una giovane scrittrice napoletana, di ben altra generazione di quella che ha vissuto l’orripilante evento, sia riuscita con talento e maestria a dipingere in scene vive e toccanti lo spaccato di storia drammatica del capoluogo campano.
Il romanzo “Profumo d’Ottobre, d’amore e di guerra” scritto da Annalisa Caravante, non potrà lasciare indifferente il lettore. Racchiuso in esso c’è uno spaccato di storia preziosa da preservare, scritto non solo con la precisione di un saggio storico, ma con tutta la sensibilità che l’autrice possiede e che traspare pagina dopo pagina. Tra le righe di “Profumo d’Ottobre” si percepiscono, come un graffio sul cuore, una ferita profonda, le grida di dolore della povera gente, indifesa di fronte al dramma che ha dovuto subire impotente.
Per sua disgrazia Napoli fu un obiettivo strategico e importante durante l’evento bellico. Difatti la flotta militare navale non poteva essere accolta nei porti di Taranto e La Spezia che non avevano spazio sufficiente. Di conseguenza Napoli fu la prima città ad accogliere gli Anglo-americani nella loro risalita lungo la penisola. Bombardamenti incessanti che ridussero la “città del sole”, conosciuta per la scanzonata allegria degli abitanti, in un cimitero a cielo aperto.
“Era la notte fra il trenta Settembre e il primo Ottobre 1943, l’epilogo delle quattro giornate di Napoli, ma per le strade si continuava a morire; si moriva per la fame e per la lotta contro i nazi-fascisti. Uscivamo sfatti e insanguinati da un tragico mese d’assedio, dove noi napoletani, messi di fronte alla scelta tra il lavoro forzato in Germania e la morte, avevamo scelto la lotta. Avevo visto alternarsi sul campo giovani, anziani, bambini, donne, studenti, madri, figli: il popolo. Tutti uniti per liberare la città. Era iniziato per L’Italia quel lungo periodo che sarebbe passato alla storia col termine di Resistenza.”

Un’ opera che nulla a da invidiare a quelle bellissime e importanti del neo realismo italiano. A.Caravante ha toccato, ad uno ad uno, gli eventi minori che fanno la “piccola” storia e che in realtà sono i più preziosi per comprendere le verità, a volte nascoste. I suoi protagonisti curati con una perfezione quasi maniacale, durante la stesura dei diversi volumi che compongono il romanzo, a turno hanno vissuto sulla loro pelle le tragedie dello stupro, dell’aborto causato dalla malnutrizione, la cattura e l’incarcerazione disumana in prigioni ove era impossibile uscire vivi. Alcuni hanno trovato la morte facendo commuovere il lettore che riesce a entrare in empatia con i personaggi, poiché la loro caratterizzazione è perfetta. Sicuramente uno degli elementi che contribuisce a questo è l’uso di alcuni dialoghi in dialetto. Patrimonio grandioso di ogni regione italiana che, grazie alle tradizioni, si distingue l’una dall’altra per la propria esclusiva bellezza, come in una variopinta sfilata carnevalesca.

“-Lasciatancelle, già ve ne site pigliate abbastanza, sang’ ‘e chi ve stramuorto!- una donna buttò una granata sui soldati.
-Ma che vulite ‘a nuje?- si disperava un uomo anziano, con un’arma puntata alla tempia e le mani alla nuca.

Rispettando il genere del romanzo rosa di ambientazione storica, al suo interno viene narrata la storia sentimentale di Claudia De Santis, la protagonista di “Profumo d’Ottobre”. La giovane donna è combattuta, ha il cuore diviso a metà tra l’amore razionale, sicuro, protettivo, a rigor di logica l’unico da assecondare e quello viscerale, impulsivo e sbagliato. Eppure quest’ultimo non l’abbandona mai, logorandola con prepotenza nel corpo e nell’anima. Quale strada, dunque, intraprendere? Il lettore seguirà col fiato sospeso le peripezie amorose, voglioso di capire chi Claudia riuscirà ad amare una volta per tutte.
Romanzo ben riuscito per lo stile preciso, per il linguaggio accurato e scorrevole ma anche per il susseguirsi dei colpi di scena. Consigliato agli amanti del genere, soprattutto in cerca di emozioni struggenti, vere a volte dolorose e crudeli che, oltre a dare il piacere della lettura, sono in grado di far riflettere profondamente su ciò che è stato.

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RECENSIONE AL ROMANZO "LA SALA DA BALLO" DI A,HOPE - PONTE ALLE GRAZIE, A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG LES FLEURS DU MAL.



Vedete anzitutto con quanta preveggenza la natura madre e artefice del genere umano, ha badato perché non manchi in nessun luogo, per condimento, un zin zin di pazzia. Perché la vita umana non fosse un mortorio, quante passioni vi ha messo Giove. E in quantità molto maggiore della ragione! La proporzione è di cento a uno, quasi. Inoltre relega la ragione in un angoletto della testa, abbandonando tutto il resto del corpo al disordine della passione. E alla ragione, che è sola, oppose come due violentissimi tiranni, l’ira che occupa l’acropoli dal petto sino alla fonte stessa della vita, cioè il cuore, e la concupiscenza che estende il suo vastissimo impero giù sino al pube. Contro queste due potenze gemelle qual forza abbia la ragione, lo dichiara abbastanza la vita comune.”
Elogio alla follia
Erasmo da Rotterdam, 1508.


Recensire un romanzo come “La sala da ballo” di A.Hope non è impresa assai facile per il turbinio di emozioni che un argomento così delicato, come quello della follia, riesce a scatenare nell’animo del lettore. La malattia mentale, come un marchio di Caino pari a quello portato dagli ebrei, dagli omosessuali e, andando indietro nel tempo, dalle streghe, adultere o semplicemente “femmine”.
Il romanzo è ambientato nei primi del Novecento in Inghilterra. Una giovane donna di nome Ella Fay viene internata nel manicomio di Sharston solo per essersi ribellata alla schiavitù di un lavoro a cui era costretta perché povera.

Nel quarto reparto filatura aveva visto la loro vita trasferirsi nelle macchine, mentre quelle si buttavano via. E per cosa? Quindici scellini a fine settimana, che per metà dovevi dare a tuo padre, e nient’altro davanti, giorno dopo giorno, mentre il resto scivolava via e ti veniva sonno, e tu ti prendevi le botte, e dalle finestre opache non potevi mai vedere il cielo.”

Eppure Ella ha trovato il coraggio di vederlo il cielo, scagliando un rocchetto vuoto contro la finestra più vicina. Il vetro è andato in frantumi e lei si è alzata in piedi stordita dallo schiaffo d’aria fredda. Dunque internata per quale grave motivo? Dov’era la malattia mentale nel suo gesto? Davvero bastava così poco, a quei tempi , per chiudere una donna in un manicomio? Bastava macchiarsi del diritto di ribellarsi a una condizione di sfruttamento?
Fin dal Settecento è evidente la funzione di esclusione sociale di tali strutture ove venivano internate le fasce più deboli: poveri, prostitute, alcolizzati, vagabondi ecc. Erano, dunque, luoghi di contenzione e di isolamento, strumento atto a garantire la sicurezza alla società “normale”. D’altronde in un periodo di rapido sviluppo industriale bisognava eliminare i soggetti non produttivi.

Eppure notava come le sorveglianti osservavano le pazienti, e a volte ridacchiavano coprendosi la bocca. L’altro giorno aveva sentito l’infermiera irlandese chiacchierare con un’altra nella sua voce aspra da gazza: Non sono bestie? Anzi, peggio che bestie. Fanno schifo, eh? E poi non gli puoi togliere gli occhi di dosso un momento, dico bene?”

Vite spezzate per sempre, in luoghi dove la morte spirituale avveniva prima di quella fisica.

Ci sono tre modi per uscire da qui. Puoi morire…Puoi fuggire…Oppure puoi convincerli che sei abbastanza sana per andartene.”

Personaggio positivo, barlume di speranza nel trovare un poco di normalità, aiuto prezioso che fa sentire i ricoverati persone e non oggetti “difettosi” è il medico di nome Charles. Egli essendo anche un musicista, trova nella danza e nella musica uno strumento terapeutico efficiente per i suoi pazienti. Il giovane dottore ha idee innovative rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi, tant’è che decide di scrivere una lettera a Churchill.
Vede, signore. Nel caso in cui il governo votasse, come credo che dovrebbe fare, contro la sterilizzazione obbligatoria, tramite adeguati investimenti e una buona amministrazione si potrebbero realizzare altre colonie come questa.”

Superò i campi con le mucche che pascolavano con i vitelli accanto:

Disponiamo di quattro fattorie e oltre seicento acri di terreno. Le nostre mandrie di giovenche dell’Ayrshire producono novecento litri di latte al giorno. Non capita spesso che i nostri uomini siano inoperosi. Capisce? Qui c’è ben poco bisogno di strumenti di contenzione, e le catene usate a Bedlam sono state del tutto abolite. Al loro posto usiamo zappe e badili.”

Il lavoro è dunque usato per riabilitare personaggi che in realtà, nel romanzo, appaiono nel pieno delle facoltà mentali. Sono uomini e donne scossi da traumi legati al passato e per questo resi vulnerabili, introversi ma molto sensibili, quasi avessero paura di pretendere il diritto alla felicità e a vivere una vita normale.
L’opera “La sala da ballo” della Hope non può lasciare indifferente chi si immerge tra le sue pagine. Pur essendo una lettura impegnativa riesce a far riflettere su un tema che non appartiene solo al passato e che tutt’oggi è motivo di discriminazione sociale.
https://www.amazon.it/sala-da-ballo-Anna-Hope-ebook/dp/B06WGQVL6Q/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1501585467&sr=8-1&keywords=LA+SALA+DA+BALLO+ANNA+HOPE

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RECENSIONE AL ROMANZO "IL GENERALE DI ALESSANDRO MAGNO" DI S.TIEZZI, A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL".

“Quali Alessandro in quelle parti calde
d’India vide sopra ‘l suo stuolo
fiamme cadere infino a terra salde.”
(Dante Alighieri, Inferno, Canto XIV, 31-33)


Il Generale di Alessandro Magno è il romanzo dell’autrice selfpublisher Soraya Tiezzi. Scrivere di un personaggio di tale complessità e spessore, sviscerarne la psicologia è un atto di grande coraggio. L’originalità della scrittrice sta nell’usare come io narrante non Alessandro stesso, ma l’uomo che, insieme al padre Filippo II, ha più influito nella sua vita: Efestione.
Attraverso i suoi occhi, grazie ai sentimenti mostrati, conosciamo la vita intima del grande macedone. Efestione è morto, descrive il tormento del suo amato durante il rito funebre e da lì parte la narrazione a ritroso nel tempo.

E’ così che è finita per me, con il mio ormai stanco corpo adagiato su una maestosa pira di legno e avvolto da fiamme gialle con contorni rossi, un bagliore che mi avvolge tutto,mentre il fuoco mi divora, ma io non lo sento, non più.
Sono uno spirito, non ho più voce. Non posso più gridare, parlare, non posso più toccare i suoi capelli biondi come il sole ormai corti in segno di tributo per me, ne sentirli tra le mie mani…
Non piangere per me, non sentirti in colpa, io sono in pace.

Nell’opera è ben tracciata la psicologia del grande personaggio storico. L’autrice, dopo l’evidente e accurata documentazione, presenta Alessandro come un uomo impulsivo, a tratti incauto nelle azioni, ma anche logico, intuitivo e calcolatore proprio come la storia riporta. D’altro canto la stessa coerenza non è rispettata nella descrizione fisica. Egli non era particolarmente avvenente, anzi, possedeva una corporatura sgraziata. Forse l’autrice ha voluto rispecchiare il punto di vista di Efestione che lo guarda con gli occhi dell’amore incondizionato.


Lo amavo come si ama un amico, un fratello, un amante. Efestione e Alessandro come Patroclo e Achille, proprio come lui avrei fatto di tutto, ma gli dei non mi hanno concesso di vivere oltre.”


Non bisogna aspettarsi il classico romanzo storico, dove a predominare sono le gesta di Alessandro Magno, ma ciò che si scopre è la profonda introspezione psicologica descritta con dolci pennellate dello stile delicato che la Tiezzi possiede. È quest’ultimo il maggior pregio del romanzo, anche se i fatti storici, le grandi battaglie avrebbero meritato uno stile più adatto a rendere incisivi i colpi di scena e l’azione. Caratteristiche trattate in modo più sintetico. Bisognerebbe, però, analizzare l’intento maggiore dell’autrice e capire se ciò rappresenti una scelta personale per dare maggior spazio alla componente psicologica, come sopra affermato. Interessante e piacevole l’introduzione della figura di Aristotele descritta in scene intrecciate con il timido approccio di Efestione verso l’oggetto della sua passione.


“Filippo portò con sé da Atene un uomo, Aristotele, fu lui ad istruirci. Passai molto più tempo con Alessandro da quando tutti noi paggi eravamo divenuti suoi allievi…
Aristotele ci portava sempre fuori, le sue idee di mostrarci ciò che avremmo imparato dai libri…
In quei momenti cercavo sempre di sedermi vicino ad Alessandro o di mettermi in modo da poterlo osservare. Mi mancava il coraggio per rivolgergli la parola, ma sentivo il suo sguardo su di me, i suoi occhi marroni che percorrevano le linee del mio viso, del mio mento squadrato, la forma dei miei occhi.”


Ora non si ha lo spazio necessario per riportare la lunga storia di Alessandro Magno, ne è questo lo scopo, quanto, piuttosto analizzare l’opera dell’autrice. Il testo è scorrevole, lo stile semplice ma curato e delicato. Il Generale di Alessandro Magno è un bel quadro sull’umanità e le debolezze di un personaggio della storia e di tutti quelli che fecero parte della sua vita.https://www.amazon.it/Il-Generale-di-Alessandro-Magno-ebook/dp/B073Z1T24V/ref=sr_1_2?ie=UTF8&qid=1503049914&sr=8-2&keywords=SORAYA+TIEZZI

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RECENSIONE AL ROMANZO "LA CHIAVE DI MIGDAAR" DI MADDALENA CAFARO, DELOS DIGITAL, A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL". INTRODUZIONE DI A. MICHELI.

Introduzione. a cura di Micheli Alessandra 

Uno dei temi della letteratura fantasy è sicuramente rintracciabile nel fertile calderone del mito. Che siamo antichi poemi epici di stampo ellenico ( vedere Percy Jackson) o una sperimentazione caleidoscopica di miti presi a prestito da diverse civiltà ( come Harry Potter) o caratteristiche rivisitazioni celtiche ( posso citare il testo di Claudio Massimo Aaron e gli dei ribelli) queste antiche prose stuzzicano e seducono il nostro intelletto proprio perché parlano al retaggio atavico che nei secoli abbiamo perso, quello che partì dai nostri progenitori come tentativo di razionalizzare il mondo e il legame tra noi e quell’assoluto che tuttora ci sfugge.
La scelta di Maddalena Cafaro è coraggiosa e innovativa poiché pochi si sono abbeverati dalla tradizione nordica, preferendo quella celtica più vicina a noi, in quanto sincretizzata con la nuova religione cristiana. Cosi Dagda diventa il dio supremo elargitore di doti, la maledizione o il malocchio trae origine dai Geis celtici. La Bona Dea viene riversata nelle figure di Maria e della Maddalena e così via, fino a arrivare alle festività pagane trasformate in celebrazioni religiose o ai tanti Santi che hanno sostituito i nomi delle antiche divinità ( basti pensare a Santa Brigida per esempio o a San Rocco ma anche all’antagonista Shaitan di caldea memoria, che deve la sua origine al mite e simpatico Cerunnos). tutto questo se da un lato è avviso ai puristi del cosiddetto paganesimo, è d’altronde conside4rato dagli etnologi il modo migliore perché, le tradizioni, sopravvivano ai tempi, ai sconvolgimenti politici e climatici, ai cambi di contesto, rei di seppellire il vecchio in favore del nuovo. Assistendo all’evento del sincretismo, invece, si riesce a coniugare tradizione e innovazione creando qualcosa che sta nella fertile terra del mezzo, inneggiando quei colori neutri tanto declassati oggi, in una società dicotomica.
 Perché questo poco interesse per la mitologia norrena?
Pur rappresentando una diretta parente di quella celtica, con cui condivide una sostanziale origine, la norrena appare quasi più tenebrosa, più difficile da digerire per menti come le nostre, statiche e poco avvezze alla filosofia. il suo concetto di sogno come atto creativo, la sua apocalisse in cui non esiste né buono né cattivo ma una sorta di caos rigeneratore, e persino le sue divinità cosi fragili e cosi umane, sono difficili da metabolizzare e comprendere. Poche menti sono in grado di entrare in comunicazione con il concetto di Yggsdril o comunicare con gli Aesir o i Vanir. O comprendere l’esistenza di mondi senza significato valoriale come Miogaror (terra di mezzo) Asgard (terra divina) o Helheim dimora di hel che è diverso dal mondo dei morti di stampo ellenico o cristiano. Ma è semplicemente il mondo di sotto, senza che questo termine oscuro, rivendichi una sorta di concetto etico o morale. E in questo ha molto in comune con la supposta cosmologia celtica pura che non aveva una così netta definizione bene o male, seppur capace, per la sua estrema flessibilità ontologia, capace di accoglierla e inglobarla.
Per la mitologia norrena è diverso. Essa nasce dal mondo del sogno, dal fiume chiamato Bifrost, colui che trasporta le idee da un mondo all’altro. E’ creativa e pertanto fonte di forza caotica, quella tanto temuta persino dall’islam (il termine jahiliyya indicava il caotico mondo pagano che contemplava la libertà individuale e di pensiero, nonché il potere incontrollato dell’immaginazione considerato una minaccia per l’ordine).
Per la mitologia norrena, invece, la creatività illimitata, e dunque il caos, è un valore. Da preservare e da incoraggiare. Le divinità sono sfaccettate, imperfette e profondamente simili al prototipo umano senza toccare gli eccessi delle divinità greche. sono forze primigenie, sono archetipi che troviamo sia dentro di noi ce fuori di noi.
La Cafaro è entrata in questo mondo, rielaborandolo in chiave moderna, inserendo le ansie di questo mondo in cui il caos è diverso da quello amato dagli antichi: è confusione priva del suo lato creativo, non produce, non cambia, non propone alternative. Esiste e non si muove, statico e disgregatorio.
Ecco che in quest’ottica il testo può assumere una valenza importante, ricordandoci come i talenti vanno sepsi, le potenzialità sviluppate e le scelte vanno accettate. Perché chi si immerge nel proprio destino porta avanti la creazione anche se questo costa fatica. Pagare la perdita del conosciuto per entrare nel mondo dell’ignoto è terrificante. Ma dietro quella porta segreta, spesso, non si cela il deserto ma un destino rigoglioso.

Alla ricerca di se stessi.


 La cosa che è veramente difficile, e anche davvero incredibile, è rinunciare ad essere perfetti ed iniziare il lavoro di diventare se stessi.
(Anna Quindlen)


“Era una serata tranquilla da Mo’s, il ristorante era semideserto, dalle finestre era possibile ammirare le rive del Siuslaw e il suo turno stava terminando; mancava solo che Sonny arrivasse per darle il cambio e sarebbe stata libera di andarsene. Nell’attesa si mise a sistemare le fette di torta nell’espositore…”

Ambientato nell’epoca contemporanea, “La chiave di Midgaard” appartiene di diritto al genere “urban fantasy” che, pur avendo visto la luce negli anni ’20 ha preso piede soprattutto negli anni duemila. L’opera della Cafaro rappresenta il genere in tutta la sua perfezione riuscendo a non essere. L’ambientazione è abbastanza innovativa poiché la protagonista vive nella nostra epoca anche se circondata dagli elementi magici tipici della mitologia scandinava. La protagonista, Sasha è una giovane donna, che conduce una vita all’apparenza normale, ma che, rispettando il percorso tipico dell’eroe, verrà presto sconvolta da alcune rivelazioni circa la sua vera identità.
E sarà così che prenderà in mano la situazione con un coraggio più grande di quello che ci si aspetta da un’adolescente, sostenuta dai “guardiani”. Il lettore entrerà presto in empatia con la protagonista perché ne seguirà l’evolversi e il maturare. Sasha possiede, infatti, dei poteri speciali che all’inizio non sa usare e che imparerà a gestire man mano che la sua personalità si sviluppa nel romanzo.


“Il buio la circondò, ma durò solo un attimo, poi l’abitacolo della Mini venne illuminato da lampi di luce provenienti dalla casa. Aprì la portiera di scatto e corse verso l’ingresso; il terreno fangoso la rallentava, ma cercò di fare in fretta e quando arrivò ai gradini del portico li superò con un salto. Afferrò la maniglia senza riuscire ad abbassarla, quindi colpì la porta chiamando a gran voce. Girò l’angolo per andare verso la porta sul retro, ma quando passò davanti alla finestra del soggiorno rimase pietrificata: le tende erano strappate e, in piedi davanti al divano, con un’espressione terribile in volto, il suo patrigno stava lanciando incantesimi contro il suo ragazzo.”

Nell’estratto appena riportato compare il primo magnifico colpo di scena del romanzo ed è da qui che tutto comincia. Il lettore continuerà a seguire la vicenda col fiato sospeso cercando delle spiegazioni che non verranno completamente esaurite in questo che, se ho ben capito, è il primo volume di una serie. Lo stile dell’autrice è fresco e impeccabile. Le descrizioni dell’ambiente sono profonde, equilibrate e mai appesantiscono il testo, semmai lo arricchiscono.

“Ho sempre amato il mare,soprattutto d’inverno. Lo guardavo dal mio rifugio tra gli scogli, seduta su un tronco rinsecchito dalla salsedine. Quando il mare era in burrasca risalivo il promontorio, raggiungendo il vecchio faro. Ero solita restare tutto il giorno davanti a una delle finestre, vagando con la mente, ascoltando il ricordo di mia madre che svelava la mia vera natura.”

Ma c’è un mondo parallelo a quello in cui Sasha vive, e che in realtà è quello da cui lei proviene: Yggrdasil. È un mondo molto più grande del nostro, abitato dai maghi e dai guardiani, oltre alle altre figure magiche. I guardiani hanno dei poteri magici, uno diverso dall’altro e che scoprono solo al momento della rivelazione. Essa giunge al compimento dei diciassette anni, ed è proprio l’età della protagonista. Un turbinio di vicende sconvolgenti avvolgeranno Sasha e tutti i suoi affetti.
Sarà in grado di superarli e scoprire la verità?
La chiave di Midgaard è un libro che fa onore al genere fantasy, in grado di appassionare non solo i lettori del genere
https://www.amazon.it/gp/product/B01MRCK5Q8/ref=s9u_simh_gw_i2?ie=UTF8&pd_rd_i=B01MRCK5Q8&pd_rd_r=63PS50NKV2YFH95WHVF1&pd_rd_w=Xdnh1&pd_rd_wg=0jhk8&pf_rd_m=A11IL2PNWYJU7H&pf_rd_s=&pf_rd_r=FTFGA5MQPW2SWXXE4AXD&pf_rd_t=36701&pf_rd_p=65dab04e-e167-43b2-8a87-d61d89060235&pf_rd_i=desktop

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RECENSIONE AL ROMANZO "JANE EYRE" DI CHARLOTTE BRONTE, A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL".


Nel 1848 il romanzo “Jane Eyre” di un enigmatico scrittore di nome Currer Bell divenne il caso letterario dell’anno. Un’ epoca in cui si affermava che la letteratura non doveva essere l’obiettivo nella vita di una donna poiché in tal modo sarebbe venuta meno ai suoi doveri primari, giustifica l’uso dello pseudonimo da parte della Bronte. Possono gli elementi autobiografici indurre al successo indiscusso di un’opera? Certo, “Jane Eyre” viene giudicato come il miglior romanzo di C. Bronte, la cui stesura avvenne nel 1847 nello stesso periodo in cui la sorella Emily componeva “Cime tempestose”. La critica lo ritenne già all’epoca un capolavoro sia per gli schemi di confezione testuale, sia per lo spessore psicologico dei personaggi. In merito alla componente autobiografica, si è tutti d’accordo nell’affermare che esistono nell’opera episodi della biografia della scrittrice facilmente individuabili.
Altro elemento che ha contribuito al felice esito di “Jane Eyre” è il tono di confessione autobiografica.
Cosa ha provocato nei lettori dell’epoca la morbosa curiosità nei confronti di questo romanzo?
Il desiderio!
In questa parola è racchiusa tutta la forza e il successo di Jane Eyre ma anche la ribellione di critici bigotti e tradizionalisti. Solo un uomo, infatti, era legittimato a provare del desiderio, di certo non una donna per di più di rango sociale inferiore, figuriamoci, poi, se potesse scriverne in libertà.  La Bronte lo fa, parla di una provinciale governante che sente una passione fortissima per un uomo sposato, non ha vergogna di ammetterlo e lo scrive. “Jane Eyre” è tutto il contrario dell’asessuata donna vittoriana. Non solo, osa lavorare fuori casa, si mantiene, è indipendente, rifiuta proposte di matrimonio che non le garbano mettendo i propri desideri al pari con quelli maschili. Quanta passione e forza d’animo in un’autrice che, nella vita reale, era considerata una donna timida, schiva, che si pronunciava con lentezza e gravità ai suoi interlocutori, ma che poi lanciava loro sguardi di fuoco.
L’elemento autobiografico che la C.Bronte usa nella narrazione, l’intelligenza, la dignità, il senso ironico e l’insofferenza verso le donne dell’epoca, buone solo a conformarsi alle condizioni dettate dall’uomo, la individuano come l’erede più diretta di George Eliot. Già nella prima parte del romanzo il lettore s’imbatterà in una piccola Jane Eyre che all’apparenza subisce i soprusi della zia e i suoi figli viziati, invece mostra il bozzolo di una personalità destinata a divenire forte e determinata.

“John non sentiva molto affetto per la madre e le sorelle, e per me provava avversione. Mi tiranneggiava e mi maltrattava, non due o tre volte la settimana, o due o tre volte al giorno, ma continuamente. Ogni nervo in me lo temeva, ogni muscolo si contraeva al suo avvicinarsi. In certi momenti mi sentivo impazzire dal terrore che mi ispirava, perché non avevo nessuno a cui rivolgermi per difendermi dalle sue minacce e dai suoi maltrattamenti. I domestici preferivano non offendere il signorino prendendo le mie parti contro di lui; e la signora Reed, su questo punto, era sorda e cieca; non lo vedeva mai picchiarmi e non lo sentiva insultarmi, sebbene facesse ogni tanto entrambe le cose in sua presenza, ma più spesso, è vero, dietro le sue spalle. Avevo l’abitudine di obbedire a John, e mi avvicinai alla sua sedia. Lui rimase per tre minuti a tirarmi fuori la lingua quanto poteva senza strapparla dalle radici. Sapevo che mi avrebbe picchiato e, mentre aspettavo con timore il colpo, riflettevo su quanto fosse brutto colui che mi avrebbe colpito. Forse mi lesse in viso il pensiero, perché a un tratto, senza aprire bocca, mi assestò un colpo violento. Vacillai e, riacquistando l’equilibrio, arretrai di qualche passo.
“Questo,” disse “è per la sfacciataggine con cui hai risposto alla mamma poco fa, e per il modo furtivo di nasconderti dietro la tenda, e per lo sguardo che avevi negli occhi due minuti fa, vipera!”
Abituata ai maltrattamenti di John Reed, non pensavo mai a rispondere, ma soltanto a come sopportare il colpo che sarebbe venuto dopo l’insulto.
“Che cosa facevi dietro la tenda?” mi chiese.
“Leggevo.”
“Fammi vedere il libro.”
Tornai alla finestra a prenderlo.
“Non hai il diritto di prendere i nostri libri. Sei una dipendente, dice la mamma. Non hai denaro: tuo padre non te ne ha lasciato. Dovresti chiedere l’elemosina, e non vivere con ragazzi di famiglia signorile come noi, mangiare quello che mangiamo noi o vestire a spese della nostra mamma. Ti insegno io a frugare tra i miei libri, perché i libri sono miei. Tutta la casa è mia, o lo sarà tra pochi anni. Va’ vicino alla porta, ma tienti lontana dallo specchio o dalle finestre.”
Obbedii, senza capire subito che intenzione avesse. Ma quando sollevò e soppesò il libro e poi lo vidi sul punto di scagliarlo, istintivamente mi tirai da parte con un grido, tuttavia non abbastanza in fretta. Il libro, scagliato, mi colpì, e io caddi battendo la testa contro la porta e mi ferii. La ferita sanguinava e mi faceva male. Il mio terrore aveva varcato i suoi limiti, seguito ormai da altri sentimenti.
“Sei cattivo,” gridai “crudele! Sei come un assassino, un mercante di schiavi, sei come…gli imperatori romani!” 
Un grande classico che risulta attuale anche al giorno d’oggi per l’attenzione dedicata alla psicologia e all’analisi interiore dei personaggi.
Un’autrice intramontabile che, ancora oggi, parla a chi cerca di innalzarsi superando gli ostacoli che la vita ci pone, siano essi di natura sentimentale o esistenziale.

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RECENSIONE AL ROMANZO "DECEPTION"DI BARBARA BOLZAN, DELRAI EDIZIONI. A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL".

Prenderti per mano, trascinarti in un mondo affascinante, istrionico e farti perdere il contatto con la realtà è una caratteristica dell’autrice Barbara Bolzan. I volumi della Rya Series nascono da pennellate di vivida fantasia ma soprattutto da solide basi di tecnica narrativa. Impressionante è il processo di formazione della protagonista che, nel terzo romanzo dal titolo “Deception”, mostra la sua maturità, il carattere forgiato dall’aver sopportato condizioni che le erano sconosciute: la fame, la sete, la povertà.

“Provai a schiudere le palpebre, ma un chiarore inaspettato mi costrinse a richiuderle. Quanta acquavite avevo bevuto la notte precedente? Non lo ricordavo neppure, e il mal di testa che mi falcidiava non aiutava a pensare.
Dalla luce che, filtrando dalle assi che sprangavano le aperture, arrivava a ferirmi gli occhi, calcolai che dovesse essere ormai pomeriggio. Il bordello aveva già accolto i primi clienti. Perché Roxile non mi aveva svegliata?”

L’autrice riesce a plasmare Rya volume dopo volume, con una tale maestria che il lettore diventa lo spettatore intimo e privilegiato della sua crescita interiore; fa suoi i personaggi del romanzo fino a sentirli familiari e ciò accade quando il lavoro di caratterizzazione è perfetto. I protagonisti del romanzo della Bolzan – sì, “protagonisti”, perché tutti hanno uno spazio importante nella narrazione in modo tale che quasi non appaiono come secondari – sono complessi, imperfetti tanto da sembrare umani. Anche questo è un elemento che svela la capacità della scrittrice in cui talento e preparazione tecnica sono un perfetto connubio.
Nemi è l’uomo tenebroso e, all’apparenza, rude; colui che ha mostrato a Rya come stare al mondo, quello vero, non il teatrino dorato avvolto nella bambagia nella quale è cresciuta. Egli, dunque, torna e risvegliare nella donna sentimenti solo all’apparenza assopiti.

“Sì, Rya. Nemi era in quella baracca.”
“E’ qui, ora?”
“No.”
“M-morto?”
“Cara, non dovete pensare una cosa tanto orribile! È vivo.” Non aveva prove da mostrarmi, eppure tutto, in lui, mi supplicava di credergli. “Nemi è vivo. È entrato in Idrethia e ha portato a termine il compito che si era prefissato: ha salvato Mejixana, ci ha salvati tutti. Poi, ha abbandonato la città. Non aveva più motivi per trattenersi.”
Era stato a un passo da me, nella casupola. Mi aveva strappata al pericolo- per la seconda volta: dopo il fiume di Temarin, il fuoco di Idrethia-.
E ora se ne era andato…

Deception è anche un romanzo profondo, che fa parte di una serie in cui vengono trattati magistralmente dei temi scottanti, quali la prostituzione, tema del volume precedente, e la violenza domestica, in questo. La lettura tiene col fiato in sospeso. Il lessico della Bolzan è ricercato, ma mai pomposo. Nessun personaggio è piatto o stereotipato, bensì ricco, dotato di sfumature che lo rendono unico e mai schierato nella categoria solo “buono” o “cattivo”. Una nota di merito va all’edizione cartacea curata nei minimi dettagli e che si distingue per l’originalità dell’impaginato, così come alla bellezza delle immagini scelte per le cover. Lettura consigliata per la trama avvincente, profonda e ben sviluppata da un’autrice che ha tutte le carte in regola per emergere e distinguersi nel grande oceano che è il mondo degli autori.

 https://www.amazon.it/Deception-Rya-vol-Barbara-Bolzan-ebook/dp/B078HXKFCL/ref=sr_1_1?ie=UTF8&qid=1514459357&sr=8-1&keywords=deception+barbara+bolzan

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RECENSIONE AL ROMANZO "AGEMINA" DI MONICA VALENTINI, A CURA DI MONICA MARATTA PER IL BLOG "LES FLEURS DU MAL"

 

Il romanzo di ambientazione storica “Agemina”, dell’autrice Monica Valentini, è il primo libro della saga dei Roccagelata. L’autrice, che ha già dato alla luce alcuni romanzi storici puri, in “Agemina” sperimenta il piacere di lasciare briglia sciolta alla sua sapiente creatività, schierando personaggi di pura fantasia al fianco di altri noti nella storia medievale italiana. Morendo, il vecchio re lascia legittimamente il feudo, che si trova ai confini tra il Lazio e l’Abruzzo, al primo e unico figlio maschio di nome Jano. Egli, infatti, ha soltanto una sorella di nome Gelina, la quale, suo malgrado, si ritroverà ad amministrare Roccagelata in assenza del fratello costretto a partire al seguito di Carlo II d’Angiò, detto lo  Zoppo.
L’opera inizia in modo sublime, ci si lascia incantare dalla descrizione ambientale che scorre con un linguaggio quasi poetico. Il lettore, da subito, ha l’impressione di trovarsi davanti a  un lessico curato e ricercato,  tuttavia scorrevole e mai inadeguato al contesto. Sembra quasi di vederli quei contadini che lavorano i campi, pare di sentire il cinguettio degli uccelli, di essere lì con Jano, che è il personaggio che conosciamo da subito.

“La giornata si annunciava calda e afosa come le ultime appena trascorse, a dispetto della leggera brezza mattutina che muoveva lieve le foglie sugli alberi carichi dei frutti maturi. La vallata era smeraldina, punteggiata dai colori variopinti dei fiori che offrivano le loro delicate corolle ai raggi di Helio.
Poco più in là si allungava una distesa imbiondita dal grano che i contadini, da alcune ore intenti al lavoro, stavano raccogliendo in covoni dorati. Il dolce cinguettio degli uccelli echeggiava melodioso, delicato intercalare al belare delle pecore nei campi e ai grugniti dei maiali nei recinti.”

Padrona della tecnica narrativa, la Valentini fa molto di più che limitarsi a presentare il primo personaggio, perché  dà al lettore informazioni necessarie per introdurlo al contesto storico senza appesantirle o proporle sottoforma di noiose spiegazioni.

“Alle prime luci dell’alba, subito dopo il primo canto del gallo, Jano Roccagelata aveva sospirato, alzandosi indolente dalla sedia. Si era strofinato gli occhi e aveva guardato il palazzo che assieme ai suoi uomini aveva piantonato tutta la notte. Le torce accese alle pareti proiettavano ombre lunghe e ondeggianti, simili a mostruosi giganti mitologici, compagne di una nottata trascorsa all’insegna della paziente attesa dell’aurora.
“E’ finita anche stavolta.” Fu il commento di un milite quando gli passò accanto per effettuare l’ultimo giro di ronda.
Jano annuì impercettibilmente: alla fine lui e i suoi uomini sarebbero potuti andare a riposare e a mettere qualcosa nello stomaco, appena il cambio della guardia fosse giunto.
Volse i suoi occhi ialini verso l’orizzonte dorato, sbadigliò stiracchiandosi e per una frazione di secondo rivide la scena vissuta alla fine di marzo di quell’anno. Era giunto al seguito di Carlo II d’Angiò, detto lo Zoppo, e di suo figlio Carlo Martello, per premere sul conclave che, in via del tutto eccezionale, si teneva a Perugia. Per Carlo II l’elezione del nuovo papa era diventata di primaria importanza da quando lo spagnolo Giacomo II d’Aragona aveva rinunciato al possesso della Sicilia.

Proseguendo nella lettura ci si imbatte in Braccio Colonna, il quale getta fango sulla prestigiosa famiglia a causa del suo modo di comportarsi crudele e scellerato. L’uomo, infatti, viene introdotto nel romanzo durante un incontro con il cardinale Pietro Colonna di Sant’Eustachio di cui Braccio è il nipote. Nel dialogo tra i due conosciamo le malefatte del giovane Colonna, compiute al fianco del suo leale scudiero Ruggero Monteforte. Notevole è la caratterizzazione dei personaggi. Essa non è mai piatta, ma ricca di sfumature e viene usata in modo approfondito anche per i personaggi minori.

“Il cardinale aveva ragione nell’affermare che avevano esagerato nel comportarsi con eccessiva superficialità, ma lui e Braccio amavano divertirsi e non si curavano molto delle conseguenze dei loro avventati gesti.
Anzi, a dir la verità, non se ne curavano affatto. Assalire, derubare e uccidere commercianti non lo reputavano un atto così spregevole come era ritenuto. Così come non giudicavano una colpa uccidere bambini, contadini e servi o stuprare le ragazze più attraenti, ritenendolo, quest’ultimo, solo un dovere delle donne verso il loro signore.”

La vita condotta a Roccagelata che nel frattempo è amministrata da Gelina, viene curata con descrizioni che fanno comprendere l’accurata documentazione anche sugli usi e costumi del Medioevo. Si entra, infatti, nel vivo del romanzo, non solo attraverso gli eventi storici dell’epoca trattati dall’autrice, ma anche assaporando gli scorci dei riti quotidiani. Ed ecco che la Valentini descrive con minuzia la sala dei banchetti, il tintinnio di ferri e ferraglie varie, la preghiera di ringraziamento prima di cominciare il pasto, i cavalieri che usavano tagliare la carne alle dame, rendendo l’opera anche un prezioso documento per le curiose e affascinanti usanze dell’epoca.
La serenità della vita di corte, tuttavia, verrà sconvolta dall’arrivo di Braccio Colonna che, approfittando dell’assenza di Jano, impegnato con Carlo II d’Angiò a risolvere la faccenda dell’elezione del pontefice in favore del suddetto sovrano, ne approfitta per ammaliare la nobile Gelina così da convincerla a sposarlo. I diabolici e per nulla disinteressati piani del Colonna, falliranno perché nel frattempo nasce una tenera storia d’amore tra la fanciulla e il suo menestrello Orso.
La trama di “Agemina” risulta ben equilibrata tra gli eventi storici accaduti, come l’abdicazione di Celestino V ad opera di Bonifacio VIII, e la sfumatura rosa a volte preponderante. Ciò che all’apparenza, e in un primo momento può lasciare sorpresi è la magnanimità di Jano nell’arrendersi all’evidente amore tra Gelina e Orso, poiché si scoprirà un motivo molto forte per cui nel Medioevo non si sarebbe mai permessa una cosa del genere. Il tutto si risolve nel momento in cui il lettore comprende che la radice di un ragionevole rifiuto rimarrà un segreto e perciò non verrà diffuso pubblicamente. Non è nostra intenzione continuare a narrare la trama, togliendo al lettore il piacere di conoscere l’evolversi degli eventi di questo affascinante romanzo.
Di sicuro ci troviamo davanti a un libro in grado di emozionare, lasciare col fiato in sospeso, e raccogliere il favore sia del lettore storico, sia di quello amante del genere rosa.

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RECENSIONE AL ROMANZO "IL VALORE DELLE PICCOLE COSE" DI MARCO VOZZOLO, LEONE EDITORE.

 


L’umanità e la sensibilità che arricchiscono il libro di Marco Vozzolo sono  racchiuse già nel titolo: “Il valore delle piccole cose”. La trama coinvolgente si dipana in balzi temporali tra il presente e il passato, quest’ultimo rievocato dall’anziano Antonio attraverso i suoi ricordi della seconda guerra mondiale in Italia, ovvero, nello specifico a Castelforte, un piccolo paese della Ciociaria. Sono scene vive, toccanti, quelle nate dalla penna e dall’impeccabile documentazione storica del Vozzolo, il quale di quei luoghi è originario. Assaporiamone la triste poesia leggendone un estratto .

“Mammà… mammà, iammo, sosete. Dobbiamo scappare non c’è più tempo.” La voce vibrò non tanto per la concitazione quanto per l’esplosione che per poco non li coinvolgeva.
Si udirono subito dopo i tonfi sordi dei sassi, delle schegge, rami e pezzi di fango che cadevano tutt’intorno.
Un’altra cannonata fece saltare un bunker in cui i tedeschi avevano piazzato una mitragliatrice, facendo schizzare pericolosamente cemento e ferraglia.
Riarsa dell’acre fumo che saturava l’aria, la gola gli doleva e poteva sentire il cuore martellargli nelle tempie. Un fischio persistente gli penetrava nel cervello dalle orecchie.
Ma la sua piccola mano non aveva lasciato quella di sua madre e, recuperando tutta la forza di cui disponeva, prese a tirare forte.


 Lorenzo, invece, proiettato nel presente, in un solo giorno perde tutto ciò che d’importante si ha nella vita: la moglie che lo ha tradito, il padre che muore e, infine, il lavoro. Sarà proprio l’uragano abbattutosi su di lui e sulla frenetica vita condotta a Prestolle che lo riporterà nel lento, dolce scorrere del tempo nel paesino di Castelforte, dove  ritroverà il legame spirituale con  Maccio, suo padre, ormai scomparso. In quell’occasione intreccerà la sua esistenza a quella di Antonio, amico da sempre  del genitore.

Una coltre di mura poderose, l’altissima torre e il suo campanile, testimonianze dell’antica civiltà medievale, gli si stagliarono di fronte. La strada aveva iniziato a risalire la collina su cui era posato quel paese costruito interamente da pietre bianche locali.

La nostalgia pian piano lo sovrasta. Lorenzo ritrova la familiarità del luogo d’infanzia assopita negli angoli reconditi della mente, sacrificata alla frenesia e alle esigenze di una vita che non lo soddisfa, di una cittadina che odia e, soprattutto da una moglie egoista che non lo ama.

Sorvolò con lo sguardo la piana in cui scorreva pacatamente il fiume, incendiato dalla luce del sole già alto. Fazzoletti di terra frazionati da muri a secco erano tutt’intorno a lui. Incredibilmente arroccati tra le rocce vincevano alberi di fico, e fichi d’India. Poco più giù, aranceti dalle geometrie perfette costellati di alberi di limone, il giallo dei frutti che spiccava nel verde e marrone. E gli immancabili ulivi, quelli che aveva anche suo padre da qualche parte proprio lì.

Marco Vozzolo è un autore che promette grandi cose, perché leggendo il suo libro non si prova solo il piacere di scoprire un testo scorrevole, immediato, crudo ed emozionante, ma si carpisce un grande insegnamento: proprio quando tutto è perduto e sembra che la vita sia finita avviene la rinascita, e sarà un’esistenza più matura, saggia della precedente.
Tutto è possibile se si ha il coraggio di guardarsi dentro e volersi un bene egoista ma sano. Il passato ritorna prepotente per insegnare i veri valori.
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RECENSIONE AL ROMANZO "LA NEMICA" DI BRUNELLA SCHISA, EDITO DA NERI POZZA.




Nella Francia del XVIII secolo una truffa ai danni della regina e del cardinale Rohan, fu un evento che sconvolse l’intera nazione e rimase impresso nella storia della monarchia francese.
Una giovane donna ossessionata dall’idea di rivendicare la sua nobile nascita e a trovare un posto nell’alta società, contribuì alla decadenza dei sovrani nel periodo turbolento e incubatore degli ideali rivoluzionari.
Brunella Schisa, nel suo romanzo “La nemica” edito da Neri Pozza, ha arricchito di sfumature affascinanti i personaggi storici e ne ha costruiti altri di pura fantasia, inserendoli con grandi capacità narrative, in un’opera che è un’armonia letteraria. Lo scopo di un buon romanzo storico, non è soltanto narrare i fatti in sé, ma creare con pennellate di diversi colori e sfumature la complessa psicologia, le fragilità, le passioni dei personaggi come in un quadro che ne compone l’insieme.
Chi era, dunque, Jeanne de la Motte? Scopriamolo attraverso le parole dell’autrice.

“A perderla è stato il suo orgoglio. Voleva essere riconosciuta come una Valois e risarcita della vita grama patita

 nell’infanzia. Il padre è morto in miseria quando lei aveva sei anni. Ha fatto la fame, ha mendicato e, grazie al suo spirito e alla sua bellezza, è riuscita a risalire gradino dopo gradino. Però mirava troppo in alto. Sposa un piccolo nobile di provincia, Nicolas de la Motte, e avrebbe potuto accontentarsi di una vita borghese, invece si mette in testa di ottenere i beni confiscati alla sua famiglia. Chiede a un amico avvocato di scrivere una petizione per ottenere la restituzione delle terre dei suoi avi. Non ha una lira ma deve arrivare a Versailles per presentare la sua petizione. Ha bisogno di prendere una camera in albergo, di vestiti, gioielli, senza i quali non può entrare alla reggia. Si indebita ma non riesce a superare la cerchia della minuta borghesia della città. Deve inventarsi qualcosa.”



Ciò che ho trascritto è inserito in un dialogo che avviene tra Marcel de la Tache, giornalista alle prime armi e lo zio redattore di un giornale locale che inneggia la monarchia. È la passione che muove tutto, e sarà proprio lei a incuriosire il giovane Marcel, personaggio di fantasia, su quella donna indomabile.
L’opera si apre, infatti, con uno scenario suggestivo che subito fa comprendere di quale pasta fosse fatta la de la Motte.
Chi era quella tigre inferocita? Quale delitto orrendo aveva commesso per essere frustata e marchiata col fuoco? Il giovane lo ignorava. Per troppi mesi era stato lontano da Parigi, lo zio lo aveva spedito a Londra a fare pratica in un giornale diretto da un suo amico, ed era tornato a casa da meno di una settimana. Cercò tra la folla un volto noto da interrogare, ma non riconobbe nessuno. Accanto a lui, un uomo con le braghe linde, un giustacuore di raso e scarpini di velluto tremava di sdegno: “Coprite quella troia, ci sono degli innocenti!” berciò.
In effetti, la disgraziata aveva le
vesti lacerate; i seni, le cosce e le spalle erano esposti alla curiosità morbosa degli spettatori. La frusta del boia le aveva squarciato i vestiti ma non lo spirito. Sembrava che la disperazione non riuscisse a degradarla. Adesso, in quattro cercavano di metterla in ginocchio ma lei, pur avendo le mani legate, con uno slancio repentino riuscì a liberarsi e scappare.

Quel qualcosa Jeanne riuscì a inventarlo e, come un tornado distruttore, trascinò con sé diversi sciagurati, incurante delle loro sorti pur di arrivare allo scopo che le consumava la mente e il cuore.
Jeanne de la Motte ordì un piano con l’aiuto del Conte di Cagliostro. Entrò in contatto con il cardinale Rohan il quale, nonostante non fosse apprezzato da Maria Antonietta, aspirava con ardore alla carica di Primo Ministro di Francia. L’ingannevole Jeanne approfittò del sogno dell’uomo per fargli credere di essere amica della regina e, perciò, in grado di aiutarlo. Come lo fece? Orchestrando una falsa corrispondenza tra i due. In realtà, Jeanne voleva impadronirsi del denaro del cardinale con la scusa che sarebbe stato destinato alle opere di carità della regina. Con quei soldi l’astuta donna poté ritagliarsi il posto nella società tanto agognato. È qui che compare la famosa collana di diamanti, ma non racconterò oltre per non sciupare al lettore la scoperta di un libro così bello.
“La nemica” è una storia di rivalsa, di menzogne, di una donna losca che irretisce, come un’amantide, chi accetta di seguirla in buona fede, per poi staccargli la testa con un morso. Eppure, alla fine, proprio lei sarà vittima della sua ossessione.

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Recensione al romanzo "L'acquaiola" di Carla Maria Russo, edito da Piemme.

L’acquaiola è un romanzo che ricorda il Verismo verghiano perché è crudo, a tratti spietato, è il grido di denuncia, il ritratto realista di un Italia neanche troppo lontana: si parte dalla fine dell’Ottocento per arrivare agli anni Quaranta del secolo scorso. E di tale epoca nel libro se ne respira il profumo e si fa i conti con l’amarezza che sopraggiunge forte quando si toccano con mano le ingiustizie, le difficoltà della povera gente per campare in modo umano.
Maria è forte, ha dei valori profondi, è dedita ai sacrifici che sopporta come se glieli avesse mandati Dio per metterla alla prova e assegnarle un posto in paradiso, quando sarà ora. Maria è religiosa come tutte le persone dell’epoca, in special modo se abitanti dei piccoli paesi del centro sud dell’Italia. E se agli occhi di qualcuno appare virtuosa e speciale, Maria non ci fa quasi caso e tira dritta per la sua strada fatta di sassi. Non ha tempo da perdere perché deve badare al padre malato e mantenere entrambi lavorando i campi dei signori.
Non sa immaginare, Maria. Non può preoccuparsi del futuro quando deve lottare con ogni singolo giorno che la impegna a garantirsi un tozzo di pane. A lei importa solo che l’asino, ormai vecchio, resti in buona salute e che il freddo l’indomani non sia così forte da spaccarle le mani quando andrà a cercare un qualunque lavoro giornaliero da sbrigare. Eppure l’affetto lo riceverà proprio da don Luigi, il figlio del signorotto del paese, di molti anni più giovane e che ricambierà la grande amicizia, la stima, la lealtà che Maria sente solo per lui. Il destino farà intrecciare le loro vite.
Ciò che colpisce il lettore, oltre l’affascinante ambientazione, l’accurata ricostruzione degli usi e costumi dell’epoca, è la psicologia approfondita dei personaggi di cui si segue l’evoluzione durante la narrazione. E per spiegare meglio la cura dell’autrice nei confronti della psicologia e della mentalità dell’epoca, riporto un estratto.
“Che significa progresso, Giuanne?”
“Ma come? Lo dice la parola stessa, no? Oh, ma siete ignoranti forti, in questo paese. Progresso è progredire, andare avanti, diventare più ricchi e stare tutti meglio. E averci tutti l’automobile invece che l’asino. Hai capito?”
“Ma l’automobile può salire le scale?”
“Non lo so, ma penso di no. Non è mica un asino.”
“E allora, quelli che abitano al “Travucco”, come fanno a portare il fieno e la legna a casa? Qua non c’abbiamo le strade che c’hanno nelle città. Gli scalini, c’abbiamo.”
“E poi vedremo. Li spianeremo e faremo le strade anche qui. Il progresso lo vuoi o no? Diventare ricco ti piace o ti fa schifo?”
“Che vuol dire, diventare ricchi? Che ci danno un pezzo di terra nostra e smettiamo di fare i braccianti per i signori?”
“Può darsi, che ne so? I socialisti, questo vogliono, dare le terre ai poveretti… non ci credi? C’è scritto qui.”
Il linguaggio dei personaggi è adattato con maestria al contesto sociale dell’epoca e rafforza, come in fin dei conti fanno anche i dialetti, i concetti che essi esprimono. E così si avverte lo stupore ingenuo dei contadini davanti al progresso, l’entusiasmo illegittimo che non fa in tempo a rafforzarsi perché schiacciato dalla diffidenza, dalla paura del nuovo per poi essere definitivamente ucciso dalla disillusione procurata dalla realtà.
“E quando comandano, i socialisti?”
“Quando la gente li vota. Ci sono le elezioni, che vuol dire che uno va a votare e dà il voto a chi vuole. Per esempio, a te ti piace di darlo ai socialisti, così loro poi comandano e ti regalano un pezzo di terra? E glielo dai a loro.”
“E dove devo andare, per dare il voto ai socialisti? Ché a me, questa storia della terra, mi piace assai.”
“Tu non puoi votare. Nessuno di voi cafoni può votare.”
“E come sarebbe? Perché no?”
“Perché può votare solo chi sa leggere e scrivere o chi guadagna più soldi di voi.”
“Ma se uno guadagna già tanti soldi, perché dovrebbe votare i socialisti? Per aiutare i cafoni comm’a noi? Che gliene frega, ai ricchi, dei poveretti che non c’hanno la terra?”
Carla Maria Russo ha esordito nel 2004 con il romanzo storico La sposa normanna che ha avuto un grande successo anche come testo di narrativa nelle scuole. È un’insegnante di italiano e latino nei licei classici. La ricerca storica è sempre stata la sua grande passione. Nei suoi libri i protagonisti sono donne e le storie, quasi sempre realmente accadute, sono forti. La virtù della scrittrice è di saper unire storie ambientate nel passato a tematiche moderne.
Questo è un romanzo che non lascia indifferenti. Leggendolo, passerete dall’umana compassione, forse a un pizzico di pietismo, alla rabbia forte causata da eventi drammatici che non racconterò per non rovinare la sorpresa. Grande penna talentuosa, quella di Carla Maria Russo. Libro consigliato con il cuore e con l’anima.

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RECENSIONE AL ROMANZO "LE ROSE DI CORDOVA" DI ADRIANA ASSINI. EDITO DA SCRITTURA & SCRITTURE.

Nel romanzo “Le rose di Cordova” di Adriana Assini ci viene offerto il ritratto completo di un personaggio storico femminile che ancora oggi colpisce l’immaginario collettivo ed è fonte di dibattito tra gli studiosi: Giovanna detta la pazza.
 Figlia dei più grandi regnanti dell’epoca, madre del grandissimo imperatore Carlo V, donna dal destino tortuoso, la sua vicenda fu definita dallo storico tedesco Karl Hillebrand, difensore della sanità mentale della regina spagnola, come “enigma della storia”.
Giovanna fu davvero una povera pazza o fu una vittima degli interessi politici di chi la circondava? La bravura dell’autrice nel far luce sugli aspetti psicologi, sulle diverse sfumature che sempre possiede la mente umana è indiscutibile e lo fa attraverso gli occhi, le azioni e la parola di Nura che è la schiava moresca di “Juana”. È lei a introdurci nel romanzo raccontandoci la sua triste storia:
Mi chiamavano Francisca, un nome scelto a caso dal calendario cristiano, ma il mio vero nome era Nura, fiore tra i fiori. Ero venuta al mondo un mattino d’estate nel cortile dei Mirti della reggia di Granada, molto prima che la città, governata da Boabdil il Piccolo, ultimo sultano della dinastia nasrida, soccombesse all’offensiva spagnola, dopo dieci anni di assedio. Adesso ero ridotta in schiavitù, assieme a tante altre mie sorelle e venivo additata come moresca, infedele o miscredente, anche se vantavo nozioni di algebra e parlavo tre lingue.
Nura è la voce narrante, è lei a raccontarci l’intimità di Giovanna e lo fa combattendo tra l’odio che spesso prova nei confronti della sua regina e l’amore, la compassione che prepotente affiorano, nonostante tutto.
Occhio per occhio, dente per dente. Al momento opportuno, Allah mi offrirà l’occasione di punirli, mi ripetevo all’epoca per consolarmi, furente com’ero per i troppi affronti subiti.
Nella confusione di quei maledetti giorni ero finita per sbaglio assieme a una manciata di giovani di modesta condizione e, non potendo più contare sulla protezione di mio padre, non ero riuscita a far valere i privilegi del mio rango, sicché sarei stata sicuramente destinata a pulire le latrine dei reali se non fosse stato per la loro terzogenita, una fanciulletta pallida, molto colta ma sgarbata, alla quale avevano imposto il nome di Juana, in onore del santo patrono della famiglia.
Era stata proprio lei, la Domenica delle Palme, a notarmi in mezzo a una dozzina di ancelle, attratta dal rosa lucente della mia veste, in tessuto fine di Damasco. Devo perciò soltanto a un suo capriccio se fui scelta per servirla, a dispetto della corona di damigelle castigliane che la regina le aveva già assegnato d’imperio.
Nura è testimone di tutti gli eventi che accadono nella vita della sua regina sino alla morte: dall’ostilità di Giovanna per il fanatismo religioso della madre Isabella la Cattolica, la quale pare amasse conversare nei “salotti” dell’epoca di fustigazioni e torture agli eretici in onore di Gesù, al matrimonio infelice con Filippo il Bello che pure all’inizio Giovanna amò di un amore “folle” e che contribuì a farle compiere azioni irrazionali e piene d’ira procurandole  l’etichetta di “pazza”, alla reclusione in una fortezza sperduta con l’intento di strapparle la corona con la beata indifferenza del figlio Carlo, alla morte che giunge come una liberazione.
Tuttavia, un altro storico famoso Karl Brandi rovescia completamente la versione di Hillebrand e ci parla di una sovrana dalla psiche delicata con vistose tare ereditarie, le stesse che aveva la nonna portoghese Isabella morta pazza.
In barba alle contraddizioni degli studiosi, Adriana Assini è riuscita a fare di questa storia così drammatica e affascinante un capolavoro.  Ogni singolo personaggio è approfondito e caratterizzato con professionalità. Sublimi le poetiche descrizioni ambientali.
Adriana guarda al passato con amore e forse nostalgia per capire il presente e da ciò che vede costruisce un romanzo, come dice la sua biografia.
Per Scrittura & Scritture, ha pubblicato diversi romanzi storici tra cui Agnese, una Visconti (2018) Giulia Tofana. Gli amori, i veleni (2017), Un caffè con Robespierre (2016) e La Riva Verde (2014). 

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RECENSIONE AL ROMANZO "LA VEDOVA FORESTIERA" DI ALESSANDRA DELOGU. EDIZIONI ARPEGGIO LIBERO.


La vedova forestiera di Alessandra Delogu analizza il periodo più delicato del secolo scorso attraverso la storia di una donna, Aurora Lorenzini e della sua famiglia. Leggendo l’opera si rivive la tragedia del conflitto mondiale, la miseria del dopoguerra, lo sforzo sovrumano di ricostruzione sino al boom economico per arrivare, infine, ai giorni nostri.
Tutto ha inizio a Pisa nel 1937 sul Ponte di Mezzo, dove Aurora incontra Mario, il grande amore della sua vita, per terminare nel 2000 a Messina.

Si erano conosciuti nell’autunno del 1937 sul Ponte di Mezzo – tre arcate poggianti su massicci pilastri cuneiformi che attraversavano l’Arno nel centro di Pisa, principale asse di collegamento tra la parte nord e quella sud della città. Quel pomeriggio di novembre, ventoso e grigio, c’erano parecchie persone appoggiate alle spallette a osservare incuriosite lo spettacolo del corso d’acqua ingrossato dalle piogge incessanti dei giorni precedenti. Aurora e la cugina Cloti, allora entrambe adolescenti, annusavano come due segugi l’aria impregnata dall’odore di fango […].
-Speriamo che il vento non giri a libeccio- rifletteva preoccupato un giovane allievo ufficiale di Marina rivolto ad altri due colleghi, i quali, affacciati accanto a Cloti e Aurora, osservavano l’ondata di piena. -Se si alza il mare e le onde alla foce si contrappongono al defluire del fiume, con questa portata c’è il serio rischio di esondazione.
-Dio bono, ‘he popò di ‘atastrofe!- aveva commentato ironicamente Cloti a voce alta, col supporto di inequivocaboli gesti scaramantici.
La cugina di rimando le aveva rifilato un’energica gomitata, invitandola a essere più discreta. Sebbene la timidezza non facesse di certo parte del suo carattere, in confronto a Cloti Aurora appariva poco più audace di un’educanda. Il brusco gesto non era sfuggito a uno dei tre giovani, il quale le aveva rivolto uno sguardo divertito, lasciando intendere di aver seguito tutta la scena.

Nel romanzo sono messe bene in evidenza le diverse mentalità e le usanze della Toscana e della Sicilia, senza mai sminuire l’una a dispetto dell’altra, anzi, valorizzandone le caratteristiche esclusive. Nonostante la presenza di numerosi personaggi maschili, sono le donne a emergere con la loro forza e la voglia di non arrendersi davanti agli eventi tragici della vita. Aurora è una donna intelligente, acculturata e con la sua ironia incarna lo spirito tipico dei toscani senza mai cadere in stereotipi. Nel romanzo ci sono tutti gli ingredienti per entrare in empatia con i personaggi e immergersi nella storia.
Furnari, 11 ottobre 1947
Cloti mia cara,
il miracolo tanto atteso si è compiuto: Bianca ha iniziato a chiamare Nino “babbo”! Anzi, per essere precisi, al momento l’appellativo è “babbo Nino”, ma io la sto spingendo a unire le due parole e chiamarlo “babbino” […].
Ma in tutta questa faccenda c’è un aspetto davvero buffo, che so già ti farà sbellicare dalle risate: il termine “babbo” qui in Sicilia non solo non si usa (tutti dicono “papà”) ma ha lo stesso significato del nostro “bischero”, vale a dire stupido, cretino. Sicché un giorno mi si avvicina tutta intimorita Agata, la giovane cameriera, e mi sussurra in un orecchio (lo trascrivo nel dialetto italianizzato che la ragazza usa con me per farsi capire): “Signora, ci pozzo dire una cosa strana che sta succedendo? Aio sentito a so figghia che ci dice cretino a so marito” […].

Alessandra Delogu, Santangelo (Messina, 1968) è laureata in Lettere e in Conservazione dei Beni Culturali. Vive a San Giuliano Terme (PI) e lavora a Pisa come impiegata amministrativa precaria.
Nel 2008 ha pubblicato il suo primo romanzo, “Ansia da prestazione. Il lavoro somministrato senza ricetta medica” (Aletti), un feroce j’accuse sulla condizione lavorativa contemporanea, premiato alla XXVI Edizione del Premio Letterario Città di Cava de’ Tirreni (2009). 






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